108, lo sciamano del post-graffitismo
L’evoluzione stilistica la immagino come una barriera di lamiera fredda che divide “l’artista” da chi si cimenta in qualcosa per passione, semplicemente.
Andare oltre la propria zona di comfort senza lasciare quello che ci contraddistingue, ma al contrario spingendocisi dentro sempre più in profondità fino ad esprimerne ogni possibile forma, fino a sceglierne la migliore.
Ed è proprio di evoluzione della forma che vi parlerò oggi. E del modo in cui la forma unendosi al colore crea qualcosa che trascende una parete di cemento o una tela e diventa un messaggio che fa eco dal profondo della terra, dal passato più antico del posto in cui siamo nati e cresciuti. Un rito sciamanico fatto di gestualità e materia.
Guido Bisagni, in arte 108, nasce nel ’78 ad Alessandria ed è tra i primi a venire in mente accostando le parole “post-graffitismo” e “Italia”. Non si diventa post-graffitisti dall’oggi al domani e soprattutto non così per caso. Si parte alla fine degli anni ’90 con un tag su un muro, si abbandona il tradizionale lettering e si prosegue con giorni su giorni di ricerca costante, disciplina e studio. Nel caso di 108 poi ci sono pagine di Kandinsky e Huxley, geometrie del Bauhaus, scritte dedicate a Fausto Coppi sulle pareti delle vecchie case di campagna, musei di storia antica e antropologia.
So che è la domanda più scontata di tutte e perciò la metto all’inizio. Ci racconti perché “108”?
Ahah, si la domanda più fatta nella storia di 108, ovviamente. Allora: a fine anni ’90 c’è stato questo momento di passaggio per me, non pensavo ancora all’arte intesa come una professione, ma ero completamente immerso in quello che erano i graffiti: tag, lettere ecc… Ma dopo aver visto gente come Stak che stava rivoluzionando tutto, volevo trovare anch’io un mio percorso originale. Inoltre mi ero trasferito a Milano e studiavo design al Politecnico, per via della mia passione per il Bauhaus e avevo seriamente scoperto le Avanguardie. Anche musicalmente stavo scoprendo la musica sperimentale, dopo anni di punk/hc stavo scoprendo Russolo e i Throbbing Gristle. Insomma stavo cambiando tutto e così ho deciso di cambiare anche nome. Avevo sempre usato un Tag, ma volevo qualcosa di completamente nuovo: un numero. Nessuno aveva usato solamente una cifra nel nostro giro e mi sembrava interessante, de-personalizzarmi completamente. La scelta del numero 108 è dovuta alla mia passione per antropologia e magia, ma principalmente perché volevo, già dal nome, sottolineare l’indivisibilità tra arte e spiritualità ed è per quello che lo conservo ancora oggi. 108 è un numero magico, principalmente per Induisti e Buddisti, ma anche nella Grecia antica, ecc… Non sto a scrivere tutto, con Google potete approfondire.
Come è avvenuto il tuo passaggio dal lettering legato alla street art più tradizionale al “post-lettering” che ti ha reso l’emblema del post-graffitismo italiano?
“l’emblema del “post-graffitismo italiano” non me l’aveva mai detto nessuno. Ti ringrazio molto ma è sicuramente esagerato, ho solo fatto degli esperimenti! Comunque parzialmente ho già risposto sopra: c’erano alcuni francesi, Stak in primis, che stavano creando qualcosa di completamente nuovo e che mi avevano colpito profondamente: mi rendevo conto che stavo copiando cose fatte a NY 20-30 anni prima, ma ero nato in Europa, in una piccola città sotto le Alpi. Per quanto superficialmente avevo studiato storia dell’arte alla scuola pubblica (che era in decadenza ma ancora non era così mal messa) e le mie influenze erano molte altre rispetto alle pubblicità della Coca Cola, c’erano scritte dedicate a Fausto Coppi sulle case in campagna, residuati degli anni 40-50, quelli erano i nostri graffiti. Oppure gli affreschi e i quadri classici che qualsiasi chiesa europea ha nel suo interno e che in un modo o nell’altro vedi fin da piccolo, e via dicendo. Fare qualcosa di originale e di mio.
Comunque la cosa più importante è stato il periodo in cui io e altri personaggi abbiamo avuto questo passaggio che è conciso con l’avvento di internet. Non quello che conosciamo oggi. Quindi noi ci siamo evoluti senza, eravamo (e io lo sono ancora) entusiasti di fare le nostre cose a spese nostre e a nostro rischio, ma in quel momento avevamo la possibilità di mandare “lettere” gratis a centinaia di km, di vedere il lavoro di altri artisti in giro per il mondo e di entrare in contatto. In un modo completamente diverso da quello di Facebook, molto ma molto meno invadente. Era solo un mezzo al nostro servizio. Il sito Ekosystem.org era l’unico dedicato a quello che ora chiamiamo “street art” ma allora chiamavamo “graffiti non hip hop” o “roba strana”, e credo che abbia avuto un importanza fondamentale nella propagazione del movimento. Comunque voglio sottolineare che fino al 2002-3 per me tutto quello che era 108 era un esperimento, giocavo con idee nebulose e materiali, mi divertiva fare queste forme automatiche e vedere cosa poteva venirne fuori!
Nelle tue composizioni c’è una meticolosa ricerca di equilibrio tra forma e colore. Che rapporto hai con i colori?
Forma e colore sono alla base di tutto il mio lavoro. Le uso in modo personale, secondo la mia filosofia. Tutto comunque parte da un libro “Lo spirituale nell’arte” di Kandinsky, che io considero la base a cui aggiungo tutto il resto delle mie influenze e delle mie idee. Non riesco a dividere l’arte dalla mia vita e quindi è tutto complicato. Comunque partiamo dalla forma: è probabilmente in nucleo, la ricerca di una forma perfetta, a modo mio ovviamente. La forma cambia continuamente, per trovarla ho provato la geometria e il disegno automatico, ma lei continua a cambiare, a volte ci sono andato molto vicino quindi continuo a cercarla. I colori: li ho lasciati un po’ in disparte per molto tempo. All’inizio usavo l’argento, come per i pezzi veloci, se ne usava e quindi risparmiavo sulla vernice e si spandeva più velocemente su qualsiasi superficie. Poi ho usato il giallo, il colore più visibile in pubblico. Quindi motivi strettamente tecnici. A quel punto la gente ha iniziato a farmi delle interviste e chiedermi il perché del giallo.
Il giallo veniva visto, specialmente all’estero, come un simbolo del Sole, quindi mare, bella vita italiana. Peccato che io viva in un posto in cui c’è nebbia 8 mesi all’anno e non sia precisamente una persona solare. Quindi ho iniziato ad essere un po’ annoiato del giallo. Intanto da spray e pellicole adesive ero passato al rullo con vernice e dalle strade agli edifici abbandonati. Quindi sono passato al nero. Diciamo che da quel momento la mia è stata una ricerca artistica, pittorica in cui il fatto di dipingere in luoghi pubblici era importante ma parallelo alla ricerca artistica pura. Diciamo che quando entri in gallerie e musei non sei più un graffitista (lo sei per il marketing e il mercato magari) ma se vuoi fare di più ti devi confrontare con tutta l’arte, “street art” molte volte è solo una scusa per fare cose banali e già viste all’interno dei musei. Comunque sono passati gli anni e rileggendomi “lo spirituale nell’arte” e alcuni altri libri tra cui “Paradiso e Inferno” di Huxley, ho deciso che non usando i colori mi stavo perdendo una parte troppo importante, non solo della pittura ma del mondo. Di solito i colori sono presenti in piccole parti: è per la loro importanza, non voglio banalizzarli.
In una tua intervista ho letto del tuo attaccamento alla tua terra d’origine – uso la parola “terra” perché è più viscerale di “paese” o “città” – riesci ad immaginarti un 108 cresciuto in una metropoli lontana da valli e montagne? Come sarebbe stato?
E’ una domanda un po’ delicata in cui ci sarebbero molte cose da dire. Direi che parlare di terra mi sembra più adatto, riferito a fiumi, boschi montagne animali e storia di questi luoghi che sicuramente mi influenzano fin da quando sono nato, però mi sento a casa in molti posti, dalla Francia alla Polonia, dalla Svezia alla Sicilia e quello che faccio è cercare un linguaggio universale per esprimermi. Viviamo in un continente in decadenza, ci stiamo dimenticando della nostra storia vera, popolare. Quando viaggio mi piace documentarmi sulla storia antica di un luogo, sul suo folklore. Credo che ripristinare antiche tradizioni, molte volte sia stupido e incivile, la maggior parte delle volte tradizioni inventate per ragioni identitarie, credo nel progresso sociale (assolutamente non in quello liberista capitalista) ma dimenticarsi della nostra storia e delle nostre leggende è pericoloso e triste. Quando viaggio mi documento sulla storia del posto, sulle culture antiche, sulle divinità locali e cerco sempre di visitare i musei locali di storia antica. Io vivo nel punto più decadente di un’Europa decadente, credo che il 90% della popolazione attuale di Alessandria non abbia mai visitato i musei civici, anche perché sono sempre chiusi.
Il 99% credo non abbia idea di chi siano i propri avi o magari ne abbia una completamente distorta. Per questo mi interessa fare la mia parte. Comunque ho sempre vissuto in una piccola città post-industriale, tra asfalto, traffico e cemento, per molti anni ho vissuto a Milano, quindi la città è il mio habitat, ma ho bisogno di starne lontano spesso. E’ complicatissimo rispondere: patisco la città, ma la amo anche. Un po’ come con gli esseri umani: credo che siano l’animale più stupido e dannoso mai vissuto sulla terra ma allo stesso tempo, facendone parte mi interessa. Comunque se sono ancora qui, dove sono nato è principalmente perché sono pigro, poco coraggioso credo oltre che per la cronica mancanza di denaro. Penso ogni giorno di trasferirmi in qualche grande città europea, non so, il fatto di poter andare in Monferrato in bicicletta in 20 minuti è una fortuna che ho scoperto avere negli anni, come avere le Alpi a poco più di un’ora di strada, però rinuncerei ben volentieri alla cittadinanza italiana e a tutta l’italianità, cucina e cultura compresi.
Nei tuoi lavori c’è una forte componente sciamanica. L’arte può esorcizzare i misteri dell’inconscio?
Si, uscendo un po’ da quelle che sono le influenze artistiche classiche, la parte più importante è il legame tra arti e magia. Una delle personalità chiave per me è sicuramente W.S. Burroughs, per vari motivi che non sto ad elencare. Comunque tanti anni fai lessi una sua intervista in cui diceva che gli artisti in tutte le culture sono sempre stati anche coloro che avevano a che fare con la religione, ovviamente non parlo di monoteismi che di spirituale hanno ben poco. E poi faceva l’esempio degli sciamai. Quella cosa mi si è incastrata in testa e ho scoperto che era la cosa più vera mai scritta. Del resto anche noi europei veniamo da una cultura sciamanica, che si è trasformata nei secoli, con le religioni classiche e poi con il cristianesimo ma che in realtà torna a galla. Basti pensare ai rituali del vino e del corpo-ostia (Dioniso, il dio sciamano euroasiatico), o gli esorcismi. Ma sto divagando: pensiamo solo all’arte orientale da quella himalaiana e a quella giapponese fino ad arrivare a Kandinsky o Mondrian. L’arte vera è spirituale.
Ma vi faccio un esempio più vicino ed attuale a cui nessuno pensa mai: che senso avrebbe andare a vedere una mostra o sentire un concerto (o un cd) se noi avessimo una visione completamente razionale? La musica e l’arte ci aiutano a trascendere la realtà quotidiana che in definitiva se non è triste e squallida è per lo meno noiosa. L’arte non ci serve per sopravvivere, non è cibo, non è aria, eppure ne abbiamo bisogno. Gli artisti (quelli onesti) sono l’unica forma di spiritualità vera sopravvissuta in occidente, anche se magari completamente ateo, l’artista è un sacerdote che ci aiuta a vivere, con la musica, le arti visive o anche solo rendendo più belli gli oggetti che usiamo.
Com’è cambiata l’arte urbana dai tuoi esordi negli ultimi anni ’90 rispetto ad oggi?
Ci sono sempre grandi artisti che lavorano nei sotterranei, tecnicamente è migliorata, ma sicuramente è diventata più noiosa e molto meno onesta.
Componi anche musica. Quanto si assomigliano il 108 artista visivo e il 108 musicista?
Non mi posso definire compositore… Faccio degli esperimenti! Le due cose comunque per me sono indivisibili. Il fatto che si parli di arti visive (e a sua volta di pittura, scultura, video…) e di musica è dovuto al fatto che si debba sempre incasellare tutto e per semplificare si creano dei recinti. Per me sono solo dei media che uso per esprimermi. Detto questo, le due “cose” si sono evolute insieme. Quando facevo i graffiti classici ascoltavo principalmente musica punk/hardcore classica, che continuo ad amare comunque. Contemporaneamente ho scoperto le avanguardie artistiche che appunto comprendevano tutto, basti pensare a Luigi Russolo. In definitiva oltre alla sperimentazione amo le forme d’arte più misteriose, o almeno meno definite, che danno importanza anche a chi guarda. Quando vedi una pittura astratta o un tipo di musica indefinibile, da un lato la apprezzi nella sua pura essenza, dall’altro ti fai delle domande, per me questo è sempre stato affascinante.
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