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L’arte attiva di Artur Zmijewsky

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C’è una domanda intorno a cui generazioni di studenti di facoltà umanistiche si sono rotti la schiena e consumati le pupille, una domanda che per molti continua a rappresentare la migliore traduzione del problema dell’esistenza e del suo senso. Una domanda che mostra la sua importanza ogni qualvolta vediamo la dicitura “ministro” davanti ad uno come Calderoli o pensiamo all’importanza che può avere il pensiero di Massimo Giletti sui movimenti psichici di chi ha appena finito di guardare la partita della domenica pomeriggio. Ogni volta che qualcuno intuisce che c’è qualcosa che non va ma non riesce a mettere bene a fuoco che cosa. La domanda che in qualche modo misterioso può essere connessa a tutto ciò è: “Che importanza ha l’arte? A cosa ci serve l’arte?”.

Ora, la domanda è stata declinata in moltissime voci e altrettanti sono stati i tentativi di risposta. C’è però un gruppo molto folto di persone che condivide l’idea che, se un ruolo l’arte ce l’ha, questo debba essere cercato nelle sue possibilità più concretamente politiche, nella sua capacità di ispirare, generare o dare senso ad “azioni” mirate a cambiare o consolidare un qualche assetto politico/istituzionale vigente. È un movimento molto ampio di pensiero, capace di accomunare l’arte di stato nazifascista e la tradizione marxista, i collettivi sovversivi più o meno inspirati ed alcune frange più indottrinate di street art, fino ad arrivare ad una certa visione di Warhol e al marketing più spregevole. L’arte, in altre parole, è utile come messaggio che riesce a spingere a fare qualcosa.

Artur Zmijewsky, della cui mostra voglio parlare in questo articolo, è uno degli artisti contemporanei che più si è fatto le ossa intorno a quella domanda e a quest’ultima risposta. Tuttavia lo fa in modo molto particolare e l’esposizione che si sta tenendo all’Istituto Svizzero di Roma (fino al 31 marzo) ne è la testimonianza. La mostra, che si tiene nello splendido edificio di via Liguria, è composta da alcune postazioni video sulle quali vengono incessantemente proiettati tre lavori dell’artista. Il primo, Them (2007), è un filmato di ventisei minuti che riprende un workshop condotto dall’artista stesso in cui quattro gruppi di persone con quattro visioni politiche differenti (nazionalisti, attivisti di sinistra, cattolici e giovani ebrei) sono invitati a comporre dei grossi cartelloni in rappresentanza della propria ideologia. Poi, i gruppi sono invitati a confrontarsi e a criticare l’altra posizione con un’unica regola: l’unica forma espressiva consentita è la possibilità di modificare la composizione dell’altro gruppo. Basti dire che, sotto la lente del regista, si passa con estrema facilità da iniziali tentativi di convergenza (un’attivista di sinistra che taglia la porta della basilica di San Pietro disegnata dai cattolici, in modo da rendere quella porta aperta) ai disegni di svastiche a coprire la bandiera nazionalista e la menzione ‘Dio, Onore e Patria’ sulla scritta “Libertà” dei giovani di sinistra. Alla fine, uno degli interventi più politici e socialmente condivisibili sarà quello dell’addetto alla sicurezza, che con un estintore spegne le varie fiamme che emergono da quelli che erano amabili cartelloni amatoriali. Democracies (2009), poi, è una serie di 20 video in cui il regista riprende una varietà di manifestazioni politiche e sociali, dalla semifinale dei mondiali di Berlino ai funerali di Haider, fino alle manifestazioni palestinesi e ad una realistica ricostruzione della seconda guerra mondiale che si svolge non so dove (era iniziato quando sono entrato). Selected Works (2007-2010), infine, è una serie di dodici filmati in cui l’artista segue per ventiquattro ore la vita di dodici lavoratori di vari campi.

Ebbene, prima ho detto che l’arte di Zmijevski è politica in un senso molto particolare e molto differente, ad esempio, dagli attivismi di VOINA. Zmijevski, infatti, mi pare invertire completamente il paradigma di quella che per molto tempo è stata vista come l’utilità di un’arte in grado di agire politicamente: non un messaggio che inspira un azione allora, ma delle azioni che inspirano un messaggio. Un messaggio che l’artista non dà, non scrive e non trasmette proprio perché essenzialmente è politico: il messaggio te lo trovi tu che lavori affianco a me, che hai diritto di voto, che puoi decidere di investirmi con la macchina, che annusi le mie ascelle sull’autobus. L’artista riprende mosse, azioni, comportamenti delle persone che agiscono nella società e che, in questa, credono di agire socialmente. Successivamente ce li restituisce come sono, senza adattarli ad una trama: fa quello che tutti noi facciamo ogni volta che ci guardiamo intorno, ci studiamo e cerchiamo di capire che cosa fare, come muoverci, come non offenderci, come difenderci, come reagire e come comprendere e non arriviamo mai ad una risposta che sia una ma comunque continuiamo a cercare di non spintonarci troppo. Fa quello che facciamo noi tutte le volte che vediamo che qualcosa non va e quel qualcosa ci da un fastidio della madonna ma poi qualcuno ci chiede “e allora tu che faresti?” e noi non sappiamo mai che rispondere, perché la gente non è un computer e la politica non è come sapere qual è il pezzo che è guasto e cambiarlo, che poi funziona tutto bene.

Un’arte politica, probabilmente, non dice quello che bisogna fare. Quello lo fa l’immagine pubblicitaria e lo fanno i simboli di partito, che sono poi un po’ la stessa cosa (i liberali sono attratti dal celeste, le ragazzine dal cantante gay e tormentato, i torelli dell’alta società dalle macchine con i fari ovali e la lamiera che fa un’onda lungo il fianco). L’arte politica, probabilmente, fa semplicemente quello che facciamo noi ogni volta che stiamo davanti al seggio elettorale con la matita in mano: porci delle domande e, sempre probabilmente, la sua utilità sta nel farci sentire che non siamo gli unici a porcele. Nel farci sentire, in mezzo agli altri, un po’ meno soli.

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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