Intervista ad Agostino Iacurci
Eh sì, l’abbiamo intervistato in occasione del suo nuovo lavoro a Roma in collaborazione con la Galleria Wunderkammern nell’ambito del progetto Public and Confidential. A voi.
Prima di tutto vorrei sapere qualcosa a proposito di te. Da dove sei partito, dove sei arrivato e cosa ti ha spinto durante il tragitto?
La prima risposta è che non so dove sono arrivato. Certo, sono partito da Foggia per arrivare a Roma e dall’Italia per arrivare all’estero e poi a poter viaggiare per il mondo intero e, in quest’ottica è vero che c’è stata una crescita esponenziale. Che cosa mi ha spinto? Beh, la passione, il fomento che ho avuto dai primi murales fatti a 12 anni. C’è sempre stata la volontà di riuscire a fare della mia passione un lavoro ed in questo sono sempre stato molto deciso. Quando quella non è stata un’occupazione a tempo pieno è sempre stata il focus su cui ho reinvestito tutti i proventi derivanti dalle altre occupazioni. E’ vero, sono arrivato a fare della mia passione un lavoro vero e proprio. Sono stracontento.
I tuoi lavori hanno uno stile inconfondibile. Semplice, poetico, affascinante. Detto questo, non hai paura che questa estrema riconoscibilità impedisca di cogliere altri aspetti dei tuoi lavori, magari meno scoperti?
Non mi interessa granché lanciare un messaggio, ma instaurare un dialogo. Se qualcuno si interroga, si chiede che cosa significhi, per me si è già compiuto gran parte del processo. Come arte visiva resta intraducibile, è come spiegare una canzone, non ha senso. Mi interessa l’opera nella sua totalità, come una melodia complessa. Poi chiaramente ho un mio movente, ma questo è fatto di atmosfere che cerco di trasferire, di lavoro sull’essere umano, sull’umorismo, sul paradosso, sul rapporto uomo/ambiente. Diciamo che più che un messaggio mi interessa far passare una visione.
I tuoi personaggi sono così “calviniani”. Qual è la loro vera identità?
Non so niente della loro identità, io non lavoro sull’identità ma sulla scena. Le mie scene le penso armoniche, complete, sinottiche con lo spazio, in dialogo con il luogo in cui sono espresse ma che evochino un elemento oscuro, misterioso, qualcos’altro. Mi interessa il mistero nonostante la chiarezza elementare di scale, pupazzi, nuotatori.
Come inizia un lavoro di Agostino Iacurci? Da dove viene?
Una parte è in progress permanente, lavoro da studio che cresce e si sviluppa autonomamente e in continuazione. Poi ci sono i lavori per progetti vari, in strada, che partono sempre dal luogo, dalle informazioni che esso può generare. Cerco di capire se è possibile lavorare con quelle, fare qualcosa di site-specific. Altrimenti lavoro sul repertorio, o su alcune serie che porto avanti nel tentativo di angolarle in giro per il mondo.
Che cos’è che influenza il tuo mondo, i tuoi disegni?
Tutto quello che vedo e che leggo, film, le mie passioni. Gli studi di illustrazione e la passione per il cinema, il raccontare storia e le immagini in movimento, quelle iconiche. Un artista che di recente mi ha colpito è Mike Kelley, anche se non vedo troppe connessioni con il mio lavoro. Il realismo espressionista tedesco, il surrealismo di Magritte, i video di prestigiatori su YouTube, il cinema di Kaurismäki, le atmosfere malinconiche e sospese con evoluzioni intense ma inespressive. Un’altra cosa vista di recente è un video su YouTube, A Brief History of John Baldessarri, 5 minuti in cui Tom Waits racconta la biografia di Baldessarri e che racchiude sintesi, arte concettuale, un mezzo moderno e una generazione passata, la musica di Waits, una cosa interessante.
Sempre più Festival di Street Art in giro: che cosa ne pensi?
La mia generazione è cresciuta con questo tipo di opere, ed oggi siamo nell’età di fare del nostro interesse un’occupazione vera e propria. Lo stesso motivo che ha spinto molti di noi ad avvicinarsi all’arte di strada genera interesse e spinge un giovane che voglia occuparsi di attività curatoriali a partire da qui, piuttosto che dal circuito più istituzionale.
Viaggi molto con la tua arte e più volte hai sfiorato quello strano mondo dell’arte istituzionale, il cosiddetto sistema. E’ davvero così mostruoso?
L’ambiente che mi piace di più è quello dei progetti, portato avanti dalla passione di persone “tranquille”. L’ambiente istituzionale, questo mostro di cui si parla tanto, non lo conosco. Per quello che ho potuto osservare non ho mai avuto esperienze davvero negative. Non mi interessa quell’ambiente o questo, mi interessa fare progetti miei e se quel progetto trova spazio in un museo, ben venga. A me interessa stare nei luoghi in cui si produce arte, stare a contatto con gente seria, non mi interessano le distinzioni. Non ho il mito positivo della strada, non quello negativo del sistema. C’è gente seria e molti peracottari in entrambi i casi. Bisogna selezionare bene.
I Boa Mistura ci hanno detto di essere tuoi fans. C’è un artista con cui ti piacerebbe collaborare?
Non so, in verità non penso così tanto a “collaborare”…
Sei stato molto all’estero. Ti va di parlarci della tua esperienza?
Ho vissuto due anni in Germania, a Norimberga, a lavorare come designer. Sono stato bene, diciamo che la principale differenza che ho notato è che all’estero dire di essere un artista non è vissuto come un atto di presunzione, una questione di egocentrismo. All’estero sei un artista se pratichi a tempo pieno il “fare arte” e la vera distinzione c’è tra un buon artista ed un cattivo artista. C’è molta più libertà in questo senso e questo sblocco mentale ti aiuta a credere in te stesso, ad essere libero di sentirti un – appunto – artista.
C’è una differenza di fruizione dei tuoi lavori in Italia e all’Estero?
Beh, in America, per esempio, qualsiasi cosa è “amazing”. C’è entusiasmo, anche gratuito se vogliamo ma c’è molto affetto. Fa bene lavorare in quei contesti ma anche tornare ad una realtà più diffidente, che ti mette più alla prova. Mi piace andare a ricaricarmi dove l’entusiasmo è legato a priori al fare arte e poi tornare a combattere in un territorio di diffidenza e ostruzionismo. Ti dà un buon equilibrio. Né l’entusiasmo né la negatività devono farti perdere contatto con quello che hai.
Dove vuoi arrivare?
Non ho un obbiettivo. Mi piacerebbe continuare a dedicare tutta la mia vita a preoccuparmi di questo e solo di questo. Dove voglio arrivare? A Foggia, da mia nonna, che non vedo da un sacco.
Tutte le foto sono di Stefano Pontecorvi.