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Akos Major fotografa il Nulla

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Ci sono due cose con cui vorrei iniziare questo post: la prima è dedicata ad un mio amico con cui stavo parlando qualche giorno fa, tentando di spiegare la mia insofferenza verso la spiritualità, il mio effettivo non comprendere la parola. Ad un certo punto, nel trambusto della discussione, lui ha detto – e credo pensi che non lo abbia sentito – che spiritualità è anche sentirsi piccoli rispetto a quello che ci circonda. La seconda cosa è la discussione originatesi intorno alla fotografia di Paul Hansen, recente vincitore del World Press Photo 2012. La foto mostra un funerale di due bambini a Gaza ed è caratterizzata da evidenti interventi di postproduzione: i colori sono accesi, la luce è esaltata a dare un tono drammatico a tutta la scena. Ebbene, su alcuni blog ho visto chiedere se sia il caso che un premio dedicato al reportage ammetta interventi del genere, se il giornalismo non debba essere qualcosa di neutrale. Questo, credo significa dire che l’occhio deve fare l’occhio, ossia vedere ed essere depurato di qualsiasi soggettività.

 

 

Tutto questo per parlare di Akos Major, che è un fotografo ungherese 38enne residente a Vienna. Akos Major fa fotografie perlopiù a quelle che un cattolico definirebbe facilmente “cose inanimate”, quasi esclusivamente in condizioni meteorologiche di estrema nuvolosità: “I look for overcast, greyish weather – evenness. If I find the conditions well in the morning, I throw everything away and go shooting. If the sun shines, I definitely look for another activity. It’s hard to schedule”.

 

 

Le sue foto sono un tripudio di grigi, di calme e di assenze: sembra sempre che qualcosa stia per succedere ma non succede niente. Tipo quando Daniele Bossari va a pescare fantasmi in provincia di Cuneo e improvvisamente ansima e struscia il microfono periferico contro il tessuto dei calzoni e dice: “ascoltate, c’è qualcosa nell’aria”. Tipo così, però senza Daniele Bossari.

 

 

Con Akos Major le cose si osservano a distanza. I mari, nelle foto di Akos Major, sono osservati così da lontano e a tempi espositivi così elevati che sono sempre innaturalmente piatti, calmi. Le persone non si vedono sorridere, le barche se ne stanno ancorate a morire di noia e di ruggine. C’è un distacco, non c’è coinvolgimento, eppure solo da qui quelle cose stesse – quelle barche, quei mari, quelle persone – sembrano sprigionare la loro verità. Sembra che, da lontano, il nulla sia la sostanza di cui sono fatte. Con Akos Major sono le nuvole che contano, è il vento, è il silenzio, è quello che sovrasta, il più grande, il più importante, quelle cose che stanno là a dirci che la vita non è altro che un piccolo strappo rompicoglioni nella calma dell’universo.

 

 

Nel percorso fotografico di Akos Major mi è sembrato di riconoscere un crescente interesse per le forme lineari, per la suddivisione geometrica dello spazio fotografico attraverso i soggetti fotografati: il mondo è preso in prestito per creare delle geometrie, per ricavarne delle strutture matematiche, una razionalità estrema. Alcune sue foto – quelle delle banchine, ad esempio, che si concludono con l’immagine di mare e cielo a suddividere la foto in due azzurri differenti – mi hanno ricordato un pittore americano del novecento, molto diverso ma molto simile a Major: Barnett Newman. Newman era un tizio che ad un certo punto si mise a dipingere delle semplici linee su spazi colorati, delle righe da lui chiamate ‘zip’. Uno di quei pittori che fa incazzare un sacco quei fidanzati che nelle domeniche di pausa-campionato cedono ed accompagnano le impettite consorti al museo. Per Newman old standards of beauty were irrelevant: the sublime was all that was appropriate – an experience of enormity which might lift modern humanity out of its torpor. In quelle linee egli ci vedeva la speranza of giving someone, as it did me, the feeling of his own totality, of his own separateness, of his own individuality.

 

 

Ora, Newman e Major mostrano elementi molto minimalisti, spuri da qualsiasi traccia di emotività umana. Il loro soggetto stesso è un non-soggetto, è la mancanza, è quella enormity che si raggiunge solo attraverso la depurazione dalla singolarità umana. Ricercano disperatamente quell’effetto. Eppure non ci riescono o meglio, il loro fallimento è la loro vera riuscita: perché per l’occhio umano anche il nulla, l’abisso e la geometria più assolutista sono qualcosa da rapportare a sé, qualcosa da leggere in rappresentanza del vissuto di chi, di quell’occhio, è il portatore. L’occhio umano è un portatore di spiritualità, una spiritualità che relegare a sedute di yoga o preghiere da cattedrale significa castrare, imprigionare, snaturare.

 

 

In questo senso Akos Major è un fotografo meditativo: ci mostra le cose da una certa distanza e improvvisamente ci troviamo distanti dal nostro stesso corpo, capaci di vederlo nella sua finitezza e nella sua irrilevanza rispetto all’assoluto. Questa distanza è la neutralità più sincera, l’unica di cui ha senso parlare: una neutralità che è spirituale, e che in questo senso si tiene aggrappata a tutte le emozioni che siamo capaci di provare.

 


Per saperne di più:

akosmajor.com

Stefano Pontecorvi

scritto da

Questo è il suo articolo n°64

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