Alla scoperta dei centri sociali italiani con Claudio Calia
I centri sociali non li ho mai frequentati. Non l’ho fatto per una forma di un preconcetto snob. Semplicemente, non è mai capitato. Premesso questo…
Ho sfogliato le tavole disegnate da Claudio Calia per il Piccolo atlante storico geografico dei centri sociali italiani, edito da BeccoGiallo, con gli occhi di una bambina (concedetemi questa pseudo-licenza poetica) che si avvicina per la prima volta ad un qualcosa che le ha sempre suscitato grande curiosità.
Il volume, arricchito da una prefazione a fumetti firmata da Zerocalcare, è una guida raccontata in prima persona da un militante che ha conosciuto la realtà dei centri sociali, e che ha deciso di offrirne una visione lontana dai più scontati stereotipi, utilizzando un linguaggio atipico: il fumetto.
Insieme all’Autore ho attraversato l’Italia da Nord a Sud, ed ho scoperto alcune delle molteplici attività svolte quotidianamente all’interno dei centri sociali: dalla creazione di scuole di lingua e di sportelli di assistenza legale per stranieri, come accade al TPO di Bologna, all’organizzazione di eventi culturali e informativi, tra le principali attività del Laboratorio Sociale PAZ di Rimini, sino alla promozione di attività finalizzate al recupero e alla ricostruzione di aree colpite da disastri naturali, come quelle svolte dal Comitato 3E32 impegnato nel risollevare il territorio abruzzese dagli enormi danni causati dal terremoto del 2009.
Claudio Calia oggi si occupa prevalentemente di fumetti e siti internet, e ci ha spiegato come è nato questo progetto.
Com’è nata l’idea di realizzare una mappa a fumetti dei Centri Sociali italiani?
Prima di tutto è nata da un percorso “formale” personale per cui, dall’inchiesta illustrata al reportage all’intervista a fumetti, mi è sembrato interessante cercare di concepire una “mappa” a fumetti”. Poi il tema, deriva direttamente dal mio vissuto, ha delle ragioni di cuore e di pancia, di affetto verso la mia comunità e di approfondimento per chi volesse saperne di più di quello che legge abitualmente. Sento che c’è la necessità, e i libri sono uno strumento formidabile in questo, di ogni tanto “fermare” la memoria a un certo punto, riassumendo alcune cose per poter interpretare il presente.
La prima volta che hai sentito parlare dei centri sociali è stato nel 1993 in una canzone dei 99 Posse, un gruppo di origini napoletane. Com’è cambiato, se è cambiato, negli ultimi vent’anni il ruolo dei centri sociali?
Io non lo so se sono cambiato io per cui vedo più certe cose di altre, eh? Perché in effetti io vedo, nell’epoca della grande crisi economica e delle migrazioni, i centri sociali cambiare vocazione da luoghi di produzione culturale e frequentazione giovanile a nuove strutture di welfare dal basso, dai corsi di italiano per migranti alle palestre popolari. Ma forse è proprio perché io non rientro più nella “frequentazione giovanile” che in realtà noto di più questo aspetto: di concerti ogni sabato sera ne ho visti per quello che è ancora probabilmente la maggior parte della mia vita, e non mi risulta sia cambiata la frequenza degli eventi live dai miei tempi, anzi.
Solitamente i centri sociali sono descritti come luoghi in cui vengono svolte attività illecite, dalla tua esperienza narrativa invece, si evince che in realtà non sono altro che luoghi di aggregazione sociale in cui le persone sono dedite alla realizzazione di progetti finalizzati al benessere comune. Chi sono e quali attività svolgono le persone che frequentano i centri sociali?
Una delle ragioni del libro sta in questo, forse. Nel voler una volta ogni tanto sottoporre agli occhi del lettore di passaggio l’altra parte del racconto che viene comunemente narrato sui centri sociali. Cioè, davvero, ci sono nel nostro paese esperienze trentennali e la rappresentazione media di questo fenomeno è ancora di giovani scapestrati che occupano posti per fumare le canne che dovrebbero tagliarsi i capelli e andare a lavorare. E’ sconfortante. E secondo chi una roba così potrebbe durare trent’anni? Riportare il racconto alle persone, persone con una vita, che fanno parte di questa società e che anzi, più di molti davvero vi partecipano. Facce, posti, luoghi, ne elenco più di cento nel libro, e ognuno di questi posti è animato da persone, non da macchiette stereotipate di un frammento di telegiornale. Estremizzando, come dico nel libro, uno degli obiettivi di questo lavoro è mostrare che “anche gli spaccavetrine hanno un cuore”.
Tu sei nato a Treviso, una realtà sociale agli antipodi da quella partenopea raccontata dai 99 posse, per lungo tempo leghista e priva di un centro sociale. È possibile dar vita a degli spazi sociali anche in territori “ostili”?
Posti “fissi” addirittura ancora no, io me ne sono andato da diversi anni ma rimango in contatto con, e racconto anche nel libro come esperienza esemplare della città “dove il centro sociale ancora non c’è”, l’esperienza del Collettivo ZTL che anche con una amministrazione che si definirebbe più “amica” di prima non ha ancora ottenuto uno spazio sociale. Però appunto, parliamo di comunità di persone, che esistono a prescindere dagli spazi, ma che negli spazi trovano il modo di restituire al territorio la loro vitale eccedenza.
L’avvento di Internet e dei social network ha dato la possibilità di creare delle reti sociali che oltrepassino i confini territoriali. L’utilizzo delle nuove tecnologie ha influenzato in qualche modo la vita e le attività che abitualmente vengono svolte nei centri sociali?
Bé, limitare il fenomeno ai centri sociali sarebbe riduttivo. E’ innegabile che in una manciata di anni è cambiato tutto in tantissime cose. Penso solo alla mia esperienza con i fumetti, dove prima andavo a comprare buste, francobolli, reperivo indagando qua e là indirizzi, e spedivo le mie cose in giro. Mentre ora basta un link. Ma rimane nei centri sociali questa capacità di dare vita a progetti comuni che lanciano sempre più lontano la meta: nella vita ho contribuito a fare trasmissioni radio in streaming da improvvisate cucine di studentati di Copenaghen, con linea ISDN quando da noi erano solo un ricordo, oppure tre giorni di TV digitale in occasione del Social Forum di Firenze. Oggi i miei amici di Sherwood che si occupano di queste cose si dilettano a fare streaming video di qualità con tecnologie sofisticate trasmettendo via satellite virtualmente da ovunque. Ecco, più di altri probabilmente i centri sociali hanno saputo prendere dal punto di vista vitale la rete, più che diventarne schiavi.
Nel 2007 hai vinto il Premio Carlo Boscarato con il volume “Porto Marghera. La legge non è uguale per tutti” sempre edito da Becco Giallo. Possiamo affermare che le tue opere sono quasi tutte contraddistinte dall’impegno civile. Anche i tuoi prossimi progetti seguiranno questo filone?
Diciamo che se c’è un filo comune che riesco – e ci riesco solo successivamente ad averlo fatto, non ho pianificato nulla – a intravedere è che le storie che mi interessano sono quelle in cui la gente si mette insieme e cambia ciò che sembra già scritto. Mi sono detto ogni volta, dopo avere finito un fumetto, che per il successivo mi sarei voluto dedicare a un libro di fantascienza, o un horror. Finora però, rimane solo un’ambizione.
Oltre ad essere un disegnatore di fumetti, sei anche padre di una bambina. Se potessi ridisegnare la realtà, che mondo le tratteggeresti?
Uff. È così semplice ma allo stesso tempo pesante da dire, così impegnativo e forse sconfortante. Vorrei un mondo in cui potesse essere felice, ecco. Se fosse in mio potere abbasserei drasticamente il livello di violenza con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno, e non mi fermerei e sbatterei la testa al muro fino a che non avessi trovato il modo perché tutti potessero vivere serenamente. Basta povertà, insomma. E poi vorrei che da femmina fosse libera, libera di fare quello che vuole con chi lo vuole quando vuole senza sentirsi mai proprietà di qualcuno. Credo arriverà prima il mio fumetto di fantascienza.
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