Arash Radpour alla Galleria Overfoto
Finalmente sabato scorso sono riuscito ad andare alla Galleria Overfoto di Napoli, conosciuta grazie alle numerose esposizioni fotografiche che periodicamente segnaliamo su ziguline. A dire il vero già qualche mese fa avevo provato a far visita a questa galleria, ma era un sabato pomeriggio e tutto mi aspettavo tranne di trovarla chiusa. Effettivamente non ho mai ben capito il motivo per cui le gallerie napoletane osservino un orario più consono ad un ufficio comunale che non ad una struttura che almeno in teoria dovrebbe riempire il tempo libero di noi semplici lavoratori a cui è concesso uscire il fine settimana. Immagino che la nostra non sia la categoria sociale a cui le gallerie napoletane aspirano, essendo principalmente interessate a facoltosi collezionisti che se ne vanno in giro per la città, possibilmente la mattina, a fare incetta d’arte. Fatto sta che anche lo scorso sabato, verificato che la galleria rimaneva aperta fino alle 14, mi sono fiondato puntuale alle 12 nell’atrio del civico n°6 nel Vicolo San Pietro a Majella. In un antico palazzo nel centro storico di Napoli la galleria si nasconde insieme ad un altro paio di attività commerciali, un ristorantino ed un negozio specializzato in bio edilizia, di cui fino a quel momento, ignoravo assolutamente l’esistenza. Si perché un’altra caratteristica di questi spazi privati dedicati all’arte, a Napoli, è che oltre ad avere orari improbabili per un turista o un semplice appassionato, sono accuratamente nascosti all’interno di appartamenti di vecchi palazzoni dove non c’è alcuna traccia della loro presenza fintanto che non riesci a beccare il piano e l’interno giusto. Sono già un paio di volte che mi capita di fare la caccia al tesoro alla ricerca della galleria perduta nei dedali del centro storico di Napoli ed ogni volta devo affidarmi alla pronta assistenza di passanti e gente del posto che mi aiuta nella ricerca. Qualcuno di voi potrà giustamente pensare che è solo un altro aspetto originale e romantico di questa città. Va bene, mettiamola anche così. Tornando alla mia visita di sabato scorso, giunto all’ingresso della galleria, con soddisfazione non trovo più i battenti di ferro del portone serrati come mi era già capitato, ma intravedo dalle vetrine alcune opere della mostra, e faccio quindi per aprire la porta. Troppo facile, la galleria vuole farsi desiderare fino all’ultimo minuto, e nonostante provassi a spingere in basso la maniglia più volte nel tentativo che l’incantesimo funesto si rompesse, l’accesso alla mia meritata passeggiata d’arte del fine settimana sembrava non dovesse in alcun modo avere seguito. La porta, per farla breve, era chiusa dall’interno. Si vedevano chiaramente le chiavi nella serratura, come se quelli dentro non avessero alcuna voglia di farci entrare. Da qui la solita scena che si ripete. Mi guardo in giro per vedere se c’è qualcuno a cui chiedere informazioni, mi avvicino al vetro dell’ingresso per vedere se scorgo la presenza di qualche addetto a cui segnalare la mia presenza. Prima che un leggero senso di frustrazione e nervosismo vincesse il buon senso e mi costringesse ad andarmene, inizio a bussare come uno scemo sui vetri del portone. Qualcuno dentro deve esserci per forza, sarà forse troppo impegnato a cazzeggiare su facebook, ma oggi mi deve aprire. E bussa una, bussa due volte, finché il miracolo si avvera e vedo arrivare colei che darà un senso alla mia giornata. Mi verrà ad aprire la ragazza della galleria, che in tutta naturalezza ci accoglie e ci augura una buona visione, tornandosene al piano superiore a fare i fatti suoi. Va bene, l’importante a questo punto è essere entrati. Comincia la nostra visita all’esposizione del giovane artista fotografo Arash Radpour, ho scoperto che è anche mio coetaneo e credo che a trentatré anni possiamo ancora fregiarci di questo appellativo. Non vi aspettate una mia critica alle opere di questo iraniano trapiantato a Roma che a quanto pare ha trovato nella fotografia il mezzo espressivo a lui più congeniale, conquistando l’attenzione di critici ed addetti ai lavori che lo hanno portato a prendere parte, tra le tante altre mostre, alla 52esima edizione della biennale di Venezia. Il suo lavoro e lo stile delle sue foto a me è piaciuto molto.
Mi è piaciuto meno scoprire che questa tanto declamata galleria potesse contare su uno spazio espositivo grande quanto metà del mio appartamento, e non vivo in un mega attico, per intenderci. Saranno stati al massimo 60 mq. Il tempo di visionare tre opere appena entrati, altrettante erano disposte in uno spazio dietro una parete divisoria. Fatto sta che i miei occhi non avevano fatto in tempo ad entrare nel tema e nelle atmosfere proposte da Arash che la mostra era bella che conclusa. Ma siccome avevo impiegato praticamente mezz’ora per arrivare e meno di dieci minuti per visionare il tutto, ho pensato che forse era meglio fare altri tre giri intorno alle foto cercando così ingannare quel senso di insoddisfazione e non sazietà che avrebbe sopraffatto anche la bellezza di quelle immagini. La sensazione provata sabato in galleria mi ricorda tanto quei piatti d’alta cucina che si risolvono in elaboratissime e sofisticatissime micro porzioni, che immagino spariscano in bocca nel giro di una sola forchettata lasciandoti quel senso di incompiuto rispetto a qualcosa che avrebbe dovuto appagare bocca ed anima. Così questa mostra, sarebbe stata veramente bella se solo ci avessero servito qualche porzione in più.