Back to the 90s
Giovedì 15 ottobre 2015, ore 13.26. La H accanto al simbolo della rete cellulare sparisce. Un avviso sullo schermo recita “rete dati bloccata”. Il mio sguardo invece urla: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”.
Il mio Dio si chiama Google. Google risponde a tutte le domande della mia vita: come faccio ad andare da un punto A a un punto B? Google. Cosa mangerò stasera? Google. Chi è l’attrice di cui non ricordo mai il nome? Google. Ho la febbre? Google. Devo o non devo andare in bagno? Google. Sì, sono una Googledipendente. E trovarmi all’improvviso a metà di una giornata di corso di apprendistato, senza connessione con cui ammazzare il tempo è orribile. La connessione dati è assente perché ho, a quanto pare, superato il limite di 2 giga (tutta colpa del corso di apprendistato), e non sarà più disponibile fino al 27 ottobre 2015. Fino al 27 ottobre. Capito?
Nel giro di una giornata passo tutte le fasi del lutto (quali sono? Google).
Negazione. Mi rifiuto di pensare che non sarò collegata. Scorro ossessivamente le impostazioni, provo tutte le alternative per avere anche solo 5 minuti di connessione in quel bunker sotterraneo dove si sta svolgendo il favoloso corso di apprendistato, tema trattati “le leggi di sicurezza sul lavoro dagli anni ’50 ad oggi”.
Rabbia. E su chi la scarico se non su questo corso che sto frequentando, per il quale ho perduto per sempre Google?
Negoziazione. In questo caso si è trattato di cercare di farmi fare l’hotspot dai compagni, senza successo.
Depressione. Alzo anche lo sguardo e cerco di leggere le slide blu con le scritte bianche e le immaginate della settimana enigmistica come contorno.
Accettazione. E se non potrò più avere internet per 12 giorni, allora la faccio sporca. Per una settimana vivrò negli anni ‘90. Completamente. Ovviamente Maria, quando le invio un sms sottoponendole la mia idea e sperando in un suo gentile rifiuto, mi dice esaltata di provare.
7 giorni senza nessuna connessione, con solo i primi 9 canali della tv a disposizione, un cellulare che sia soltanto un cellulare, la macchina fotografica di mio padre con dentro un rullino in bianco e nero, ma soprattutto: NIENTE GOOGLE.
Per i primi dieci minuti del primo giorno cerco di convincere il mio ragazzo a fare le ricerche più disparate per conto mio. Tipo quanto costa la bottiglia di vino che ho appena vinto lanciando cerchietti alla fiera del tartufo di Alba, o quanti film ha fatto un attore di cui non ricordo il nome, ma che ho visto in Streghe.
I successivi venti minuti li passo pensando a quante foto metterei su Instagram, se solo potessi. Tipo la polenta che sto mangiando, i banchetti della fiera, i tartufi, i dolci, anche dei selfie, addirittura.
Fortunatamente al quarto bicchiere di vino mi dimentico del cellulare, ma non prima di aver inviato sms a tutti. Improvvisamente, mancandomi Whatsapp, sento l’esigenza di dire qualcosa a più o meno tutta la rubrica. Ma mi fermo, sapendo che negli anni ’90 un sms costa caro. 200 lire ogni 160 caratteri. E poi uno pensa che Twitter sia stata l’invenzione del secolo. Ci scrivevamo già da tempo, in uno spazio così limitato. Solo, non lo inviavamo a tutti i nostri 200 contatti.
Nei giorni seguenti comincio a dimenticarmi a casa il telefono, ad aver voglia di raccontare ai miei amici tutto quello che mi succede, a non provare assolutamente nostalgia per tutti quei post inutili e uguali della mia home page di Facebook. E soprattutto, ogni volta che mi ritrovo a pensare a qualcosa che avrei voluto scrivere sul mio profilo, mi rendo conto che è una cagata pazzesca. E che posso tranquillamente dirla ai miei poveri colleghi in ufficio e basta.
Il quarto e il quinto giorno è lo streaming, quello che mi manca di più. Con il mio fidanzato che naviga allegramente alle mie spalle io faccio zapping sui primi canali della tv. MTV è diventata una merda, riesce a superare il peggio dei programmi di Real Time: qualche boss di qualche cosa si alterna a qualche cuoco che ti insegna a cucinare, a storie di omicidi e a gag prese da internet. Mi rendo conto che siamo stati molto fortunati, a crescere in un’epoca dove i videoclip stessi erano dei capolavori (senza scherzare, avete mai pensato che Wannabe delle Spice Girls è girato in un unico piano sequenza?), mentre oggi ancora grazie se ne vedi uno, di videoclip.
Decido di dedicarmi ad altro: faccio almeno 4 lavatrici, stiro tutto quello che nella vita non ho mai stirato, lenzuola comprese, e leggo oltre metà dell’ultimo libro di Game of Thrones. E pensare che fino a qualche mese prima mi domandavo com’è che mia madre riuscisse a cucinare, lavare i piatti, fare la lavatrice e stirare tutto in un giorno solo.
Riprendo le routine di quando avevo 15 anni, anche guardare la tv la mattina prima di andare a lavoro, e scopro che c’è Settimo Cielo.
Tra tutti i telefilm di quella decade hanno riesumato il più noioso, irritante, pudico, moralista di tutti. Ho beccato la puntata dove Lucy (avete presente la lagnosa figlia di mezzo?) gioisce perché è stata concepita il giorno di San Valentino. Ed è in quel momento che realizzo una cosa fondamentale: faccio shopping e trovo vestiti di ciniglia, le ragazzine hanno davvero ancora indosso quelle collanine tattoo che ti pinzavano i capelli e i peli del collo, i Blur fanno ancora dischi, così come i My Bloody Valentine e gli Slowdive, al cinema danno Ritorno al futuro, in tv passano film cult come Titanic, la radio passa All that she wants degli Ace of Base almeno 4 volte in una sera, a Torino ci sono 4 diverse feste dedicate a tutte le sfumature degli anni ’90 e Max Pezzali riempie gli stadi oggi come allora.
Non siamo mai usciti dagli anni ’90. È questa, la grande, immensa, verità. E ne sono così felice, che quasi quasi non ci torno più al 2015. Non faccio in tempo a entusiasmarmi di questa epifania che la connessione si riprende. Tornano i giga, e le notifiche. Ammetto che inizialmente i continui squilli del telefono con gli aggiornamenti di Whatspp e Facebook mi urtano. Poi scopro che è arrivato Netflix in Italia. È così bello vivere negli anni ’90 con una connessione adsl veloce e le serie tv in streaming.
Un sentito ringraziamento a Carla, la mia collega, che non solo ogni mattina mi faceva uno squillo quando era sotto casa mia, ma che si è presa così bene dalla mia avvenuta da dedicarci un creative morning in studio. Gran parte delle foto, e il Nokia, sono suoi.
E se vi state chiedendo come mai ci ho messo così tanto a pubblicare l’articolo, è perché dovevo sviluppare le foto.