Ciao, mi chiamo Edoardo Delille
Tanto per capire l’approssimazione con cui ragioniamo a volte pensa a un luogo e prova a descriverlo: subito si finisce a andare per tentoni nel buio e parlare per contrasti barcollando nel range visivo della nostra immaginazione. Come nel film in cui Pozzetto è paralizzato e Greggio non vedente. Com’è Portofino chiede Greggio e Pozzetto attacca: c’è la chiesa, ci sono le case, i muri colorati, le finestre, le persiane chiuse.
Io che vivo in un paesino del Piemonte ti direi: c’è una chiesa barocca, una piazza in pavé, un parco giochi con un campo di bocce. Al massimo potrei far rimbalzare contrasti: i vecchi sulle panchine e i giovani che si stonano con birra annacquata il sabato sera, il campanile e i cartelloni dei supermercati; l’insegna di Bartolini che si vede fin giù dal fiume e ti distrae mentre sei in camporella.
Però dopo aver parlato con uno come Edoardo Delille capisci quanto sei pirla e che la sensibilità sta altrove: a fare i luoghi sono gli abitanti e se vuoi creare un senso di comunione e comunicare qualcosa al tuo interlocutore non devi limitarti a semplici elementi edili o architettonici, devi mostrargli il lato umano della faccenda. Il paese in cui vivo è spiegato nella cartolaia che smette di parlare con le clienti quando entri in negozio, le voci dei commensali satolli sentite per le strade deserte la domenica pomeriggio o le martellate ritmiche con cui il carrozziere percuote con inspiegabile insistenza una sfortunata grondaia di tolla inabile dopo che un albero le è caduto addosso nel 2003.
Edoardo Delille lungo tutta la sua opera ha espresso la condizione umana in ciò che andava a raccontare: così il dolore di una città distrutta come Lebanon diventa ancora più evidente se messo in luce mostrando chi ha avuto il coraggio di tornarci a vivere. E in uno dei suoi più recenti lavori, “Terreni” presentato alla mostra “Milano, un minuto prima”, la sfida è raccontare una metropoli attraverso quegli spazi dedicati allo svago dei suoi cittadini, dove tennisti, golfisti o giocatori di soft air diventano simili ai protagonisti di quelle ampie stampe enciclopediche del settecento, senza sparire nello spazio ma caratterizzandolo ulteriormente.
Come è nata la serie di immagini che compone “Terreni”? Che macchina hai utilizzato?
Volevo rappresentare Milano da un punto di vista diverso. Il tempo libero negli spazi pubblici sul bordo che divide città e campagna è una prospettiva di Milano che mi sembrava poco vista e interessante.
Pensando a dei paesaggi con piccole figure umane e a grandi stampe ho usato un dorso digitale montato su Hasselblad, per avere un file che potesse rendere tutti i dettagli del paesaggio, anche i più piccoli.
Quali pensi sia il punto forte di “Terreni”, il messaggio che possiede e che l’aspetto che riesce a far emergere di Milano?
Penso sia un progetto diverso rispetto allo stereotipo visivo della città che siamo abituati a vedere.
Vivi a Milano? Come descriveresti questa città?
Vivo con base a Milano da 10 anni, metà dell’anno viaggio, cercando di stabilirmi per almeno 3 mesi in un posto che decido di rappresentare. Milano è un ottimo posto da cui scappare.
Che cosa miglioreresti di Milano per aumentare la qualità della vita dei suoi cittadini? Ci sono degli edifici o quartieri che ti piacciono particolarmente?
Abito in via Vigevano, sui navigli, ricorda un paese. conosco tutti. E’ una sorta di piccola comunità.
Aiuta molto. Da delle certezze salutare le persone che conosci appena esci di casa ed entrare nei bar e avere il mio caffè nel bicchiere di vetro senza dover chiedere niente. Sono piccole cose ma mi fanno stare meglio dentro la città.
Hai immortalato i “comebackers” di Lebanon, i giovani Iraniani e quelli del Kosovo, qual è il filo conduttore, lo spirito, che anima queste nuove speranze secondo te?
Mi piace rappresentare e raccontare delle piccole storie d’amore in posti difficili, dove i media hanno sempre rappresentato situazioni di odio. Mi piace la speranza e trovo sia importante raccontarla.
Negli scatti a Lebanon c’ è un riferimento volontario alle foto di Gabriele Basilico? Ti interessa la fotografia d’architettura?
Non c’è alcun riferimento a Basilico, anche se è un grande maestro della fotografia. La fotografia di architettura mi interessa solo quando fa da cornice a degli avvenimenti umani, anche se piccoli e all’apparenza insignificanti. Simon Roberts e forse anche Massimo Vitali sono più vicini al mio modo di rappresentare il paesaggio. Non mi interessa la documentazione ma una nuova interpretazione della realtà.
Che cosa ti ha colpito del Kosovo? Quali pensi siano gli aspetti di città come questa che non passano per i media tradizionali?
Mi ha colpito la vitalità nascosta della città, andavo a letto alle 6 tutte le mattine per seguire i miei soggetti nelle scorribande notturne di Pristina.
Che cosa è per te l’arte, cosa può fare per migliorare la società e i singoli individui?
L’arte dovrebbe essere più diretta. Io non riesco a capire il senso della maggior parte delle mostre che vado a vedere. Non ci arrivo proprio e mi arrabbio molto che sia una cosa settaria per i soliti curatori e personaggi che girano da un vernissage a un altro dicendosela e raccontandosela tra di loro. La soddisfazione maggiore che ho avuto all’inaugurazione della mostra al forma sono stati i commenti sulle mie foto di un falegname e di un apicoltore che mi hanno chiesto dettagli sul mio lavoro. Il resto solo parole di circostanza inutili.
Chi è un’artista che ti ha influenzato e uno che sponsorizzeresti spudoratamente?
Magritte torna spesso nei miei lavori, penso che la sua interpretazione della realtà mi accompagni spesso.
Sponsorizzerei i lavori di Taryn Simon, fotografa americana e ancora più volentieri la inviterei a cena. Avete mica il suo numero di telefono?
Eh magari…