Claude Fischer e la sua “arte elettrica”
La settimana scorsa sono stata invitata da un amico ad un vernissage dell’artista di Strasburgo Claude Fiscer per la sua esposizione : « Give color to your life ». Dopo qualche minuto di discussione sul soggetto, il mio amico mi indica un ritratto dell’artista insistendo sul fatto che lui sia parte del movimento denominato “arte elettrica”.
Non volendo arrivare totalmente impreparata a questa esposizione, ho voluto conoscere la definizione di questo termine dal suono un po’ barbaro: “si tratta di un’arte contemporanea che senza schermo, senza elettricità e senza reti non esisterebbe”. Acquisita la definizione, la mia prima riflessione è stata quella di chiedermi perché abbiamo questo bisogno viscerale di ferire gli artisti associandoli ad una pseudo corrente al solo fine di dargli una sorta di legittimità?
Il vernissage ha avuto luogo al “Chat Perhé” a Strasburgo, un grande lounge bar terribilmente contemporaneo con la sua linee pulite, le mattonelle nere al muro e le luci attentamente studiate. Il “Chat Perhé” è molto conosciuto per le sue serate esplosive e per il fatto che vengono spesso ospitati gli artisti della regione.
È in un ambiente di festa e disteso quello in cui ho incontrato Claude Fischer, che mi ha fatto scoprire le sue creazioni spiegandomi il suo metodo di lavoro. Originario di Strasburgo, Claude Fischer ha una quindicina di anni d’esperienza nella progettazione grafica e nella direzione artistica. Bulimico d’arte contemporanea sotto tutte le forme, musica, architettura, moda e design percorre le grandi città della Francia e d’Europa in cerca d’ispirazione. È in questi giri notturni che raccoglie una folla di clichè eterogenei che presto o tardi servono ad alimentare i suoi lavori professionali e personali. Ciò che mi ha immediatamente sedotta nei suoi quadri sono i colori aciduli che ricordano lo spirito dei manga giapponesi. Rosa fucsia, verde anice, blu marino…, una vera ghiottoneria “visuale”. Solo dopo mi sono soffermata sulle immagini. Un pò di foto alla moda degli anni ’40, una ballata degli anni ’60 in omaggio a Twiggy, un caleidoscopio che rimanda a forme femminili, in breve, delle opere che marcano incontestabilmente lo spazio e lo sguardo.
Claude sembra voler perseguire delle idee simili alla corrente pop art basata sullo sconvolgimento delle immagini e sulla ripetizione. Le sue creazioni si evolvono in più dimensioni retro chic, epoche rivoltate, modernismo etc..La singolarità del suo lavoro risiede nell’utilizzo sottile di tecniche tradizionali artigianali (raschiatura, pittura, fotografia, fotocopia, ritaglio di vecchi giornali) mischiate all’uso della tecnologia digitale (illustrazioni, fotomontaggi, bug informatico). È con questa associazione che da vita a delle immagini particolari che possono qualificarsi come ibride. Questi ibridi risultano tanto in un assemblaggio composto da diversi elementi che in un “incidente informatico”.
Di questi “bug”, Claude, ha fatto la sua tecnica personale. Esplora tutte le possibilità che le sue macchine gli consentono di fare, unendo al cuore dei suoi computer supporti cartaceo creati in precedenza.
Io non so dire esattamente se gli ibridi di Claude mi sono piaciuti, per il fatto che si accordassero perfettamente col luogo dell’esposizione o in quanto belle in se. In tutti i casi, ho trovato un insieme di immagini fresche, dinamiche e frizzanti che in un batter d’occhio, in un epoca evoluta mi ha reso un po’ nostalgica. Infine, Claude è un personaggio colorito, strampalato e generoso.
Alla fine posso dire che come tutte le correnti “l’arte elettrica” è solo la testimonianza di un’epoca alla quale si è voluto dare un nome.