Collettivo FX, una fresca ondata dalla provincia emiliana
Ci sono volte in cui prepari un’intervista e speri che il risultato sia un racconto sincero, omogeneo e interessante e ci sono altre volte in cui prepari la stessa intervista con la certezza che questo avverrà. È capitato a me con il Collettivo FX. Lo ammetto, non li conoscevo bene fino a qualche mese fa e non li conosco tuttora un granché, anche perchè sfido chiunque a stargli dietro. Sono attivissimi sul territorio emiliano, organizzano sagre a base di saperi antichi e street art, si dedicano ad ascoltare i racconti delle persone che incontrano, vanno in giro in lungo e largo per l’Italia in sella a una bici, corrono a destra e a manca tra un capannone industriale e le Ex-Officine Reggiane e ci fanno uscire pure il tempo per qualche viaggio fuori nazione. Al di là delle doti di ubiquità, il Collettivo FX mi piace perchè ragiona su quello che fa e lo fa bene e senza troppi fronzoli ed è questo il motivo per cui ho deciso di approfondire la mia precaria conoscenza del loro lavoro ma soprattutto il motivo per il quale non riescono a tenere fermi i pennelli.
Ciao Collettivo FX, raccontateci di voi che siete davvero un collettivo.
L’altro giorno c’erano due anziani in piazza al paesello che discutevano di politica: uno ex-comunista e l’altro ex-democristiano (anche se ora sono dello stesso partito continuano a discutere). Mentre discutevano sono entrati nel bar e ordinato qualcosa: “peg me” (pago io) fa uno, “no no te tè mat, peg me” (te sei matto, pago io) replica l’altro, “romper mia i maron sa” (non rompere i maroni, su) continua l’altro, fino a che la discussione si sposta dai massimi sistemi politici a chi doveva offrire da bere.
Veniamo da qui, dalla provincia, dove si perde tempo in discussioni inutili e si mette passione nel fare le cose… inutili.
Attraverso un rapporto di fiducia e una serie di precise istruzioni, inviate il vostro materiale a chi voglia farsi coinvolgere nel collettivo. Come vivete questo scambio? Non vi turba l’idea di affidare la vostra arte e la vostra filosofia a persone che non conoscete?
Nella mentalità metalmeccanica – da dove proveniamo – c’è la mania di smontare le cose. Così abbiamo fatto lo stesso con la street art: ne sono venuti fuori tre pezzi principali: l’ideazione, la realizzazione e l’azione. Questi tre pezzi lì gestiamo in modo collettivo: in molte situazioni ragioniamo sull’ideazione dell’intervento chiacchierando con chi vive nel posto, altre volte realizziamo il pezzo a più mani con altre persone, e infine l’azione può essere fatta o affidata a più persone. Ci fidiamo perché è più faticoso non fidarsi!
Siete genuinamente legati al territorio, sul quale siete molto attivi. Cosa succede nell’underground di Reggio Emilia? Com’è la scena artistica della vostra bellissima regione?
È successo che qui l’America con la sua smania di successo non c’è mica arrivata tanto bene. È arrivato invece uno da Aprilia che ha preparato una pasta con le melanzane e messo intorno ad un tavolo molti disadattati che dipingevano per strada. Pochi giorni dopo eravamo tutti a riempire un paio di pareti alle Officine Reggiane.
Da lì il gruppo di disadattati si è allargato alle città vicine, alle nuove leve, fino ad oggi dove dipinge gente un po’ da tutt’Italia.
Sì siamo legati al territorio, ma sarebbe strano il contrario: se si esce di casa e si sta un po’ attenti si incontrano un bel po’ di storie interessanti. Ma questo non solo per la profonda Emilia ma anche per buona parte d’Italia, strapiena di storie sotto casa; come si fanno a non sfruttare?
Scordavamo: Il tizio di Aprilia si chiama Gas, e ora fa lo chef a Shanghai.
Siete tra i fautori dei primi interventi alle Ex Officine Meccaniche Reggiane, una fabbrica risalente ai primi del ‘900 all’interno della quale si costruivano cacciabombardieri, navi e locomotive , un luogo intriso di storia e vocato a una riqualificazione spontanea come quella che avete avviato. Raccontateci come e quando avete trafugato le pareti delle Reggiane e chi sono gli altri writer coinvolti.
Quando si va in un posto abbandonato si ha sempre a che fare con il passato. Se quel passato è occupazione di fabbrica più lunga d’Italia, gente che manometteva aerei fabbricati per i nazisti, Domenica Secchi uccisa all’ottavo mese di gravidanza mentre correva a festeggiare la fine della guerra, un secolo di cultura del lavoro e fatica, e molte altre cose enormi… ti trovi tutto questo lì davanti …ti senti subito in forte soggezione e poi hai una sensazione di dovere misto ad orgoglio. Tutto questo in qualche modo ha influenzato molte delle persone che lì hanno dipinto portando una motivazione che va oltre il dipingere.
Purtroppo il termine “riqualificazione” non si può ancora utilizzare: ci sono ancora parecchi senza tetto, disperati, che lì dentro son costretti a vivere. Sogniamo una riqualificazione in stile “parco Dora” di Torino (dove un ex area industriale diventa parco) che coinvolga i ragazzi che ora lì ci vivono.
Tornando ai graffiti, gli apripista sono stati Rhiot, Gas, PsikoPatik, Caker e noi. Oltre a questi un ruolo fondamentale l’hanno avuto Hang, Bibbitó, Reve+, Lante e Astro Naut. Elencare tutti quelli che son venuti è impossibile (almeno un centinaio); solo di recente abbiamo fatto un paio di jam con una trentina di persone.
Tra i vostri progetti c’è La sagra della street art, che l’estate scorsa ha portato venti artisti a riqualificare diverse zone di Canossa, in provincia di Reggio Emilia. Com’è nata questa iniziativa? Ci sarà una seconda edizione?
Ci sono questi muri di stalle anni settanta a portata d’asta e rullo, e una mentalità contadina dove si parla con la gente per decidere le cose. Così chiacchierando con dei ragazzi di un’associazione del paesello (associazione whats) ci è venuto in mente di fare la Sagra. Siamo andati in stalla a chiedere se volevano un disegno sul muro e quasi tutti han risposto “se se per me ghe mia problema!”.
E così con l’aiuto del James Kalinda e del Bibbitó abbiamo sentito un po’ di artisti con una mentalità contadina e la cosa si è concretizzata. Potrebbe sembrare un festival, ma in realtà è una cosa più semplice e casereccia, più simile a una jam dove anziché dipingere su muro in periferia si dipinge su stalle tra i monti.
Non abbiamo ancora iniziato ad organizzare la seconda edizione ma sicuramente ci sarà. L’obiettivo è che la modalità sagra – con artisti che si incontrano tra di loro e con il territorio – si diffonda e che si crei una rete o addirittura più sagre. In questi giorni incontriamo gli organizzatori del Miau un progetto di street e arte urbana tra le colline sperdute della Spagna per scambiarvi idee e collaborare.
Non ci conosciamo personalmente ma quello che colgo e che mi piace molto è il vostro entusiasmo e la purezza delle vostre idee. Quali sono i principi sui quali si basa il vostro collettivo?
C’è un signore ottantenne. Si inizia a parlare e lui finisce qui: “Si presentarono i repubblichini alla porta e chiesero di mio padre. Lo portarono sotto al portico e gli mostrarono un paio di braghe sporche di sangue. Doveva dichiarare che quello era sangue umano ma lui si rifiutò; non aveva la strumentazione per l’analisi e quelle erano le braghe del macellaio, normale che fossero sporche di sangue. Lo misero al muro. Gli puntarono il mitra e gli richiesero se quello era sangue umano. Lui ribadì, che quelle erano le braghe del macellaio e che senza strumentazione non poteva verificare. E aggiunse: se volete spararmi, fate pure. Era lì davanti, a pochi metri, vedevo e sentivo tutto. Quando rientrò mi disse: volevano solo spaventarmi”.
Forse non abbiamo risposto alla domanda, però, quanto è potente ed utile questo racconto? Forse per fare un lavoro utile a volte è importante non essere i protagonisti ma solo un ottimo strumento.
Avete un punto di vista molto forte e a volte critico su come si sta evolvendo la street art. Date sfogo ai vostri pensieri.
In uno degli ultimi progetti che abbiamo realizzato veniva Sonia, una ragazza senegalese di diciassette anni da pochi mesi in Italia. Nei trecento metri che dividevano lo spazio del progetto da casa sua gli veniva regolarmente chiesto di prostituirsi. Quando vediamo progetti di street art nei quartieri periferici che hanno come obiettivo non creare delle relazioni ma mandare una fotofiga a Street Art News come facciamo a non sbroccare?
Finché si confonde street art con Urban art per dare a quest’ultima un fascino underground che non ha, pazienza, siamo comunque dentro ad una questione di definizioni artistiche (che comunque vanno chiarite). Quando invece si parla di periferia degradata la questione non è artistica ma di una ragazza di diciassette anni che rischia di prostituirsi. Ma bisogna avere dei grossi problemi per ignorare dei problemi così grossi, o no?
Chi sono gli artisti che apprezzate in Italia?
Reve Più su tutti. Una persona che ha un’attività in proprio, lavora dieci ore al giorno e una famiglia da mantenere. Si presenta alle Reggiane la domenica, “ho due ore di tempo e mezzo litro di nero”. Tira fuori asta e rullo e ci spara otto metri di buona la prima parlando di donne e dando dritte ai giovani. Dopo due ore fa su bagagli e aste, scavalca e torna dalla sua bimba.
Domanda di rito, quali sono i vostri progetti per il futuro?
Pittare in giro, beccare gente valida, continuare a lavorare nelle periferie e brontolare sui social.
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