Dammi il tuo amore
di Federica Leonardi
Merda.
Aveva dato un calcio a una merda.
Pensava fosse un sasso. Aveva il colore e la forma di un grosso calcinaccio, un pezzo di travertino sfigurato da un piccione. Invece era il fossile di uno stronzetto di cane, lasciato come opera d’arte contemporanea sul ciglio del marciapiede. Non troppo morbido da dichiararsi per quello che era né troppo secco da non far danni. Così adesso aveva la punta della scarpa sporca di merda. La punta della scarpa nuova.
Sporca.
Merda.
Degno proseguimento di una giornata cominciata male.
Clizia si era svegliata di nuovo incinta. Le gravidanze immaginarie di Clizia. Ne capitava una ogni sei mesi, una ricorrenza che si era abituato a festeggiare sempre nello stesso modo.
Lei, urlando dal bagno: “Amore, sono incinta!”
Lui, mescolando con frustrazione una bustina di saccarosio nell’orrido caffè d’orzo: “Congratulazioni! Dovremmo allargare la cameretta dei nostri figli immaginari.”
Lei, sempre più isterica: “Guarda che stavolta è vero! Me lo sento!”
Lui, bevendo la cicuta mattutina con un netto colpo di gomito: “E com’è? Bello duro?”
Lei, a livello mass-murderer: “Sei uno stronzo! Se non mi credi vai a comprare il test, così poi ne riparliamo, coglione!”
Slam! Porta che sbatte per marcare il proprio odio per un marito che non la capisce.
Lui che afferra il primo giubbotto che trova sull’appendiabiti, infila le scarpe nuove appena comprate ai saldi a un prezzo da truffatore con patente ed esce fuori. Aria. Smog. Libertà. Morte che ti cova dentro decine di uova di larve pronte a schiudersi appena farai la cazzata che ti costerà la vita.
Merda di cane camuffata da sasso scuro: la casualità dell’esistenza.
Come aveva fatto a trovarsi a condividere lo stesso letto e la stessa casa con Clizia, proprio non se lo ricordava. Ricordava il giorno del loro matrimonio, la festa, i baci, le frasi di circostanza, i cin-cin, le battute, i trenta vassoi d’argento regalati con studiato sadismo da altrettante zie quasi certamente morte che non avrebbero rivisto mai più. Ricordava la barba del prete e quello sguardo sempre un po’ incazzato di suo suocero, e i pianti delle madri e il viaggio di nozze in 500 su e giù per un quarto d’Italia. Ricordava tutto questo, ma il motivo, il motivo per cui aveva deciso di avvelenarsi l’esistenza associandosi a Clizia, quello proprio non riusciva a ricordarlo. E sì che ci provava. Si sforzava di far lavorare il cervello, la memoria. Ma niente. Non gli tornava in mente. Se c’era stato amore, era finito sotto le ruote della 500 appena varcato il vialetto d’ingresso della loro nuova casa, al termine della luna di miele.
“Quanto pago?”
“Dieci euro. Codice fiscale?”
“No, niente. Va bene così.”
I test di gravidanza vanno e vengono, i bambini, fortuna loro, no. Perché non riusciva a immaginare niente di più triste di un figlio nella loro già triste vita coniugale. Un piccolo capro espiatorio su cui riversare anni di ambivalenti frustrazioni. Come quella pianta grassa che si era suicidata alla sesta settimana di convivenza, lasciandosi morire sul termosifone. Ignorata da entrambi. O il cane scappato tre volte prima che una vicina si decidesse a offrirsi come pet-sitter a tempo indeterminato, salvando la bestiola da quell’incubo di Bosch che entrambi si ostinavano a chiamare vita.
Da anni non facevano più l’amore.
Alla sua penultima gravidanza mistica glielo aveva ricordato: -Come fai a essere incinta se non scopiamo da mesi?
Lei aveva fatto quel sorriso scemo che pensava le desse un’aria misteriosa e che, invece, la faceva solo sembrare più scema.
“Indovina?”
“Mi hai messo le corna?”
“Forse.”
“Beh, buon per te, che trovi ancora qualcuno che si eccita a guardarti.”
Vaso in frantumi scagliato contro una parete. Pianti. Lacrime. Capelli strappati.
“Tu non mi ami più!”
“Cosa dovrei fare, secondo te?”
“Ma non sei neanche geloso!”
“Geloso di cosa? Delle tue fantasie?”
E il peggio era quello, forse, che non ne era geloso. Perché non si può essere gelosi di qualcuno che non si ama, che si sopporta a fatica che, a tratti, a pensarci bene, dà pure fastidio quando ci sta accanto. Come una mosca cavallina. La vedi e provi ribrezzo.
Nessuno è geloso di una mosca tranne, forse, una rana.
Ma, al di là di tutto, al di là di ogni cosa, c’era quello. Che era uscito per comprare l’ennesimo inutile test di gravidanza. E aveva dato un calcio a un pezzo di cacca scambiato per un sasso. E aveva sporcato la scarpa nuova. Sulla punta. Una scarpa di camoscio. Ormai irrimediabilmente contagiata dai batteri che vivevano in quel pezzo di stronzo di cane. Tutto per un test di gravidanza che non serviva a niente, tranne che a confermare la follia che si gingillava con l’utero di Clizia.
Tutto per colpa di Clizia.
“Dove sei stato?”
“A comprarti il test.”
“Ah, già. Adesso vedrai.”
Glielo strappa dalle mani, la piovra. Lui ne immagina la vagina come il becco di un polipo. Scappa in bagno con il cartoccio fra i tentacoli. E nemmeno lo ha salutato. O ringraziato. Ci ha rimesso un paio di scarpe nuove. Tutto per consolidare la sua follia.
Stringe un po’ di più il manico del martello nuovo, appena comprato, nascosto nel giaccone, finché le nocche non diventano bianche.
Si avvicina lento alla porta del bagno, chiusa dall’interno. Bussa leggermente con la testa del martello.
“Clizia?”
Rumore di acqua che corre, la piovra sta urinando sul suo stecco magico.
“Un attimo.”
“Clizia, che dice il test?”
“Aspetta.”
Lo sciacquone. Rubinetto, sapone, mani insaponate. La pelle che gratta tra la stoffa dell’asciugamano.
“Clizia, il test, che dice il test?”
Il martello sollevato, pronto a colpire quella testolina biondo cenere, appena farà capolino dalla porta.
Lei armeggia con la serratura.
“Clizia, allora?”
“Dice… dice che sei uno stronzo: ecco cosa dice.”
“Clizia, sei incinta?”
“Se non scopiamo da settimane, come faccio a rimanere incinta, me lo spieghi tu?”
Le ultime parole mescolate alle lacrime che ancora rigano la faccia quando si solleva verso quella di suo marito. E vede. La testa del martello. E la bocca fa una “O” di stupore e orrore prima che il martello cali a fracassarla. E poi diventa un buco nero di sangue e denti in frantumi e poltiglia che potrebbe essere carne. E la testa tenta di tornare nel bagno, di usare la porta come scudo. Ma la porta si chiude con uno schianto sul collo. E il martello continua a calare, frantumando e schiantando tutto quello che c’è da frantumare e schiantare. Ma, per fortuna di Clizia, la porta è stata generosa e le ha spezzato il collo anticipando il martello nel suo lavoro.
Clang! Fa il martello cadendo a terra, vicino una massa rossa e bianca che ha la faccia della morte.
Lui si guarda la punta delle scarpe.
Sporche di merda.
E sangue.
Irrimediabilmente.
Testi di Federica Leonardi
Foto di Daniele Deriu
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Nata nell’anno del Grande Fratello di Orwell, si laurea in Scienze Politiche con l’obiettivo di aiutare il mondo. Poi ci ripensa e mette su famiglia, al momento composta da marito, gatta e coniglio. Scrive racconti para-noir che finiscono su antologie AA.VV. quando va bene (Giallolatino 2011/2012/2013. Cronaca Vera n.2131, Si scrive Terracina vol. 2,3 e 4) . Un romanzo distopico in attesa di finire nel camino, un altro che forse ce la può fare. Scrive solo se sa che qualcuno la leggerà, magari per dirle che ha scritto una roba che non si può leggere. Ma convinta che scrivere per se stessi sia un po’ come masturbarsi: un piacere un po’ triste. Da qualche tempo collabora con la sezione libri di Horror.it
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