William Miller, un fotografo con un curriculum da paura
Nonostante il fuso orario che separa Roma da New York sono riuscita a combinare un’intervista con un artista fantastico, il quale con la sua macchina fotografica realizza dei lavori che toccano il cuore e la sensibilità di ogni osservatore. Il genio in questione si chiama William Miller, è un fotografo di New York con un curriculum da paura e da qualche tempo alterna l’attività da fotografo a quella di papà novellino ma sempre con un tocco di creatività. Buona lettura!
Osservando le tue foto mi sembra di notare che c’è un gusto in te nel cogliere i tuoi soggetti in momenti particolari della loro vita. Parlo del progetto Met e del Reportage per esempio, dove i protagonisti vengono mostrati così come sono. Cos’è che vuoi trasmettere attraverso l’obiettivo della tua macchina fotografica?
Sono stato un reporter per molto tempo e le foto della sezione Reportage sono generalmente breaking news o fotografie editoriali che ho realizzato per quotidiani e molti altri clienti. Facendo quel mestiere si finisce a fotografare sfilate, incidenti automobilistici, incendi e il Presidente degli Stati Uniti d’America. È in realtà un metodo per avvicinarsi a ciò che viene chiamato vivere in una grande città.
La sezione Met del mio portfolio è un lavoro realizzato alcuni anni fa per il Metropolitan Museum of Art. Ho scoperto che ciò che mi piaceva fare realmente era fotografare la gente mentre interagiva con le opere esposte in quel museo, perché mi piaceva l’idea dell’interazione tra arte e soggetto dell’arte.
Mi piace molto la serie del Gowanus Canal, l’apparente movimento dell’acqua e la sua calma. Quale è l’importanza della natura nei tuoi lavori?
Mi è successo di interessarmi alle astrazioni nel mondo che mi circonda. Ho scelto di fotografare il Gowanus Canal, una delle correnti americane più inquinate perché è piccola e la concentrazione dei rifiuti è molto visibile. La prima volta che sono stato a Gowanus Canal per fotografare mi è sembrato chiaro che non sarei stato in grado di fotografare le immagini astratte dell’acqua sporca se non avessi preso il riflesso del cielo. Quell’interazione tra gli escrementi, catrame e le nuvole in alto sarebbe divenuta la parte fondamentale di questo progetto. Volevo che le fotografie fossero puramente visuali, penso che ci si possa leggere un messaggio sociale dei rifiuti tossici ma la realtà è che sono attratto dalla bellezza intrinseca di questo canale maledetto così come dalla commozione per ciò che veramente è. Mi piace anche quando il primo influenza il secondo. La confusione nel guardare a terra per vedere il sole. Io penso che molte di queste immagini siano delle prospettive sbagliate. Non c’è narrativa. Nessuna forma umana. Nessuna linea di orizzonte. Cerco di camminare (visualmente) nello spazio tra acqua, rifiuti e cielo.
C’è qualcosa in questo che mi ricorda il famoso trittico “Il Giudizio Universale” di Hieronymus Bosch (1482), dove si assiste ad una oscura e terrificante scena dell’Inferno sulla Terra. I condannati vengono torturati e uccisi da figure da incubo mentre angeli e divinità con le loro trombe galleggiano in un fascio di luce e cielo azzurro. In un dettaglio del trittico i dannati vengono inseguiti nell’acqua da draghi e gettati da un ponte da strane persone somiglianti a rane. Continua a immaginare la scena di quando vengono condotti in quell’acqua terrificante e inaspettatamente intravedono la luce di dio e il cielo azzurro riflettersi nell’acqua sporca sotto di essi e per un secondo si immaginano cadere nel paradiso.
Ci puoi descrivere la serie Athazagoraphobia?
Athazagoraphobia (la paura di essere dimenticati) è diventato un progetto molto recentemente. Ho avuto un bambino a dicembre e allora avevo bisogno di un progetto che potesse essere sviluppato da casa. Lavorando per un quotidiano negli ultimi dodici anni ho raccolto molte fotografie di corpi che vengono rimossi da scene del crimine e da altri posti di morte. I medici chiamati ad esaminare i corpi di queste persone hanno infilato gli stessi corpi in delle sacche e legati ad una barella che per poi essere trasportati all’obitorio. Si tratta della strana interazione finale tra un corpo e i medici esaminatori (in italiano si chiamano anatomo patologi, ndr), un fatto che appare occasionalmente in tv, sui quotidiani e in internet. Così ho deciso di rimuovere i cadaveri dal dimenticatoio. Poiché è molto triste essere dimenticati dal mondo dopo la morte mi è sembrato molto più triste per loro essere rimossi dall’oggetto storico di reminiscenza: la fotografia. Così facendo, penso di dimostrare l’abilità delle foto di dimenticare.
Quanto lo spazio urbano influenza i tuoi lavori?
Mi sono tenuto lontano dal mondo dei reportage negli ultimi anni e mi sono avvicinato al mondo astratto recentemente ma sono di New York e come tale ho una sensibilità e interesse di qualsiasi newyorchese. Cerco quei piccoli ed invisibili spazi di contemplazione astratta dentro spazi urbani più grandi. Il Gowanus Canal è un esempio di ciò. Ho trascorso qualche mese viaggiando in macchina e fotografando muri apparentemente bianchi dove emergono piccoli dettagli. Adoro questi paesaggi dimenticati.
C’è qualcosa o qualcuno che ancora non è finito nel tuo obiettivo fotografico ma che ti piacerebbe catturare?
Non posso dire che esiste qualcosa da qualche altra parte che vorrei fotografare solo per il gusto di fotografarla. Non sono interessato nei documentari o alla narrativa convenzionale ora. Cosa cerco è principalmente visuale e non devo andare tanto lontano per trovarlo.
A cosa stai lavorando in questo periodo?
A parte il progetto Athazagoraphobia trascorro il tempo giocando con nostro figlio ne ho un altro intitolato Detritus. È un progetto in cui uso lo scanner pianale come macchina fotografica. Praticamente scannerizzo le macchie sul vetro dello scanner fatte con le mie mani e con la faccia. Le immagini rimandano a dipinti colorati ma le macchie sono fatte di sudore, olio e pelle.
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