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Fabio Donato, reporter della cultura

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Quella col fotografo napoletano Fabio Donato è stata una piacevole chiacchierata sulla fotografia e l’arte, più che un’intervista. Il posto è l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, un piccolo ufficio, dove tra carte e scartoffie trascorriamo ben due ore. La carriera di Donato è molto legata al teatro, alle avanguardie degli anni ’70 e alla città di Napoli. Sorride spesso, soprattutto quando ricorda e racconta delle sue esperienze e la sua vita con tanta passione. Tra ricordi e disquisizioni sull’arte della fotografia Fabio Donato mi dedica un piccolo workshop, nel quale m’illustra le sue foto raccontandomi di come sono nate.

courtesy Fabio Donato

Benvenuto dalla redazione di Ziguline.

Grazie.

 

Ziguline: Sono molti i mezzi artistici con i quali potersi esprimere, perché hai scelto la fotografia?

 

Fabio Donato: La fotografia è arrivata dopo la musica, la poesia e la pittura. E’ stata la scoperta di uno strumento che mi permetteva la sintesi delle varie esperienze artistiche avute da ragazzo. La passione nasce negli anni ’70, da adolescente. Ho fatto tre anni di architettura, durante i quali mi si è posto il problema di che fare di quest’interesse che mi coinvolgeva fortemente. Facevo molte fotografie per studio e agli amici del teatro, quindi è cominciato il momento pubblico. La necessità di farlo bene mi ha posto davanti a una scelta, e ho preferito la fotografia.

 

In quegli anni la macchina fotografica non era nelle case di tutti. Attrazione fatale?

 

A dodici forse tredici anni ebbi in regalo una Comet Bencini (sorride), una macchina povera, cominciai a fare le prime foto e…uscirono bene. Era un gioco, non pensavo alla fotografia come un lavoro.

 

Studiare architettura ha in qualche modo influito e continua a influire sulle tue scelte artistiche?

 

Fabio Donato: Sono stati i miei anni di formazione. Ho scelto architettura percè si avvicinava di più a quello che stavo cercando. Mi ha dato il senso e la cultura del progetto. Sono passato per una foto veloce con un effetto immediato, quella del fotoreportage e del giornalismo, però la foto che mi piace fare viene dopo la riflessione. Vedo una situazione, la memorizzo, rifletto, aspetto, ci ripenso, ripasso, la riguardo, un giorno prendo la macchina fotografica e vado a realizzare la foto.

 

Molte tue fotografie sono delle sequenze. Costruisci delle storie…

 

Fabio Donato: È proprio così, cerco di raccontare sinteticamente cose di grande semplicità, sono i miei inviti alla riflessione. Fotografo per far scattare negli altri una riflessione, l’interrogazione, il dubbio o la curiosità. Chi fotografa usa uno strumento di conoscenza. Il livello di conoscenza aumenta attraverso la fotografia perché è un approccio alla realtà di approfondimento, di analisi e d’indagine. Se cammini è una storia, se cammini per fotografare stai con le antenne alzate. Se cerco qualcosa, la tensione, lo sguardo, la concentrazione è molto elevata e questo mi fa conoscere molto di più che stare rilassato a fare altro. (M’illustra alcune foto della serie Infinti, N.d.R.). Nelle mie foto c’è il passato e il presente. Cerco un assoluto, che sia al di fuori della storia. (Ride)..Chiaramente in forma poetica, chiaramente un po’ criptica, però posso raccontare la sintesi di quello che faccio. Fotografo concetti e non la realtà.

 

Secondo te la fotografia è semplicità o complessità?

 

È complessità, almeno per chi la sa leggere. Io fotografo dei piedi (si riferisce a India ’70, 1971, N.d.R.) ma voglio parlare di un miliardo di persone che muoiono di fame. Poi dipende da chi legge, o meglio dalla sua cultura e dalla sua esperienza, che in pratica dà il senso finale al tutto.

India 70 | courtesy Fabio Donato

Ziguline: Cosa manca a chi non sa leggere una foto del genere?

 

Fabio Donato: L’abitudine alla complessità. E’ una persona semplice, non ha l’attitudine alla correlazione. Nella triangolazione “cosa fotografata, autore che fa la scelta e fruitore”, quest’ultimo è chi chiude questo triangolo. La fotografia è soggettiva due volte, per chi la fa e per chi la guarda, e non è mai oggettiva. Io sono durissimo su questo. Non devi essere un critico per leggere un’opera d’arte, ti dà qualcosa per quello che sei. Comunica a ognuno cose diverse, ma solo se questa le contiene. Se questi piedi avessero avuto le scarpe o se fosse stata una foto a colori, avrebbero sicuramente comunicato qualcos’altro, in quanto ci sono dei segni che di per se sono nell’immaginario collettivo e dunque legati a dei concetti. L’immaginario collettivo è una banca dati ma non è uguale per tutti. Se il fotografo all’origine ha inserito il segno giusto permette di decodificare una serie di concetti.

 

Ziguline: Parlaci del tuo rapporto con il teatro e di com’è nato questo sodalizio.

 

Fabio Donato: È nato nel ’68, quando a Napoli si faceva il teatro off. Il teatro sperimentale nelle cantine, non quello ufficiale. Io amo il teatro che sperimenta. Voglio dire, il progresso viene dalla ricerca e quindi dalla sperimentazione, altrimenti si rimane nella staticità. Eduardo De Filippo è bellissimo, non si discute, ma poi c’è anche il desiderio di andare avanti portandosi dietro ciò che c’era prima, è questo che m’interessa.

 

Ho notato che dai molta importanza al momento pratico della fotografia.

 

Fabio Donato: Quando guardi una foto, non devi vederci solo l’immagine ma anche quello che c’è dietro. La fotografia è lo sguardo del fotografo, il quale ha una propria gestualità, una propria ritualità, che l‘ha pensata, ha preso la macchina e l’ha fatta. La cosa che ci si domanda è perché è stata fatta? Ci deve essere un segno che fa scattare un pensiero. M’interrogo sugli strumenti e su cosa sia la fotografia.

 

Come ti muovi quando lavori per il teatro?

 

Fabio Donato: Quando lavoro per il regista, le mie fotografie devono raccontare la sua filosofia, il suo punto di vista. Non faccio fotografie mie, però qualche volta mi permetto di “rubare” un’immagine. Hai mai visto il mio ritratto di Eduardo de Filippo? Quella è una mia foto, non fa parte di uno spettacolo. Eduardo stava lavorando da regista e stava guardando…”il futuro”, ed io ho rubato questo momento molto forte a mio avviso. La foto è sufficientemente ambigua e contiene una serie di messaggi, che può capirli chi li sa leggere. Attualmente sto creando un archivio fotografico per raccogliere quarant’anni di storia della cultura napoletana.

Eduardo De Filippo | courtesy Fabio Donato

Parlami del rapporto che ha il tuo obiettivo con gli attori, cosa rappresentano?

 

Io fotografo il teatro non fotografo gli attori. Con questa risposta ti sto dicendo qual è il mio interesse verso il teatro. A me interessa la complessità e l’attore è un elemento di tutto questo. Per me il teatro è il testo, la sceneggiatura, la luce, il piano di regia. Poi certo tutto questo è fatto dagli attori ma gli attori sono stati messi insieme dal regista.

 

Ma lo sai che esiste un gruppo su Facebook intitolato: “Prof. di fotografia Fabio Donato è Giampiero Mughini???”, lo ritieni offensivo?

 

No, anzi mi sembra divertente. Mi diverte questa somiglianza.

 

Questo ci ricollega a internet, attualmente rappresenta un modello di diffusione e di condivisione molto potente, come vivi quest’aspetto della nostra società?

 

Mi limito a scambiare informazioni. Ho superato la riluttanza che avevo nei confronti di Facebook perché mi hanno convinto i miei studenti, ma ne faccio un uso diverso da loro. Sono un uomo di un’altra generazione e affronto l’informatica con difficoltà. Sono su Facebook da un mese e ancora poco fa non sono riuscito a mandare un messaggio.

Ho notato che non hai un tuo sito web ufficiale.

 

Non ancora. Me lo stanno facendo e sarà meraviglioso (ride soddisfatto). Beh le mie foto sono bellissime ed è per quello (ride).

 

Internet rappresenta un recipiente nel quale si può trovare di tutto. In che modo credi che la fotografia sia relazionata a questo mondo? E’ una cosa positiva per la fotografia?

 

In internet si può anche affogare. Il discorso è complicato, è come per il cellulare con la fotocamera. Premi un bottoncino e compare un’immagine, e quella l’hai fatta tu. Il problema è che questa grande diffusione di massa, ha provocato un degrado generale della produzione, di quella vera e quindi le foto sono più brutte.

 

Hai cominciato a lavorare in un’epoca in cui non esistevano la macchinetta digitale e i cellulari con la fotocamera. Quindi per te le foto di oggi e quelle di ieri hanno un diverso valore?

 

Giornali, editori o pubblicitari, secondo te pagano un fotografo mille euro al giorno o si affidano al nipotino che ha una macchina fotografica un po’ “meglio”? Il livello si è abbassato. In internet ci sono milioni di fotografie gratis, che puoi utilizzare quando e come vuoi. Io cerco di trattenermi, faccio massimo dieci foto all’anno per me. Tunisi ‘80, questa sequenza è stata a maturare in un cassetto, in una specie di limbo, e ho deciso che era una bella cosa venti anni dopo e dunque l’ho tirata fuori. Forse perché sono state una specie di raptus, differenti da tutte le mie foto che vengono fuori da una riflessione lunga, lenta. Il fatto di averle fatte così me le ha congelate in un cassetto e ogni tanto me le andavo a guardare, vent’anni dopo mi emozionano ancora. Con questa risposta voglio farti capire cosa non rappresenta internet.

 

Sei docente all’Accademia delle belle arti. Credi che l’insegnamento di questa disciplina possa essere più utile di fare esperienze ed esperimenti con le proprie capacità e mezzi? Insomma cosa insegni in un corso di fotografia?

 

Cerco di far capire che la fotografia è un linguaggio con il quale ci confrontiamo tutti i giorni, faccio in modo di far misurare questi giovani che hanno a che fare con la creatività, con le arti visive. Faccio in modo che non siano vergini di fronte a quest’arte, a questo linguaggio che è così fatuo come lo siamo stati noi. Gli insegno a leggere, cerco di far capire qual è il rapporto con l’immaginario collettivo, la differenza tra chi le foto le fa e chi le guarda. Credo che siano questi i problemi in una scuola come questa che vuole formare operatori nel campo delle arti.

 

Ti capiterà spesso di imbatterti in studenti privi di talento. Che cosa fai in questo caso?

 

Una scuola è una scuola, mette i voti (ride), c’è chi viene bocciato, chi fa un esame mille volte, chi non si laurea più o chi prende centodieci e lode, e poi semmai fa mostre e libri.

 

Secondo te quali sono le caratteristiche che distinguono un fotografo che ha davvero talento, che ha davvero qualcosa da dire, da uno dei tanti che si affidano esclusivamente all’improvvisazione?

 

La fotografia è un linguaggio, quando lo impari, puoi scrivere la Divina Commedia o dire parolacce, in mezzo c’è tutto il resto. Lo stesso vale per la fotografia, dipende dagli obiettivi che hai nella vita, puoi essere Dante Alighieri o limitarti a essere un barbaro e usare la macchina fotografica come se fosse una macchina. Cerco di far capire questo, chi mi segue va alle mostre, a teatro, legge libri, discute con i colleghi, non perde tempo, cerca di capire che il mondo è fatto di tante cose, si mette in discussione, si confronta con gli altri. Il fotografo è una persona che usa la macchinetta per parlare. Se vuoi fare il fotografo, devi avere qualcosa da dire. Qualcosa da dire ce l’ha chi si guarda attorno, si sa esprimere e che mette in relazione passato e futuro.

 

Il tuo background ci riporta continuamente agli anni ’70, il fermento artistico di quegli anni non esiste più, come te lo spieghi?

 

Fabio Donato: Non ti so rispondere. Negli anni ’70 avevo vent’anni e venivamo da un decennio che si era concluso col tentativo di rottura di un sistema che ci portavamo dietro da sempre. Vivi in una dimensione, dove a San Remo vince Nilla Pizzi e poi scopri che contemporaneamente esistono i Beatles. Il ’68 è stato un tentativo politico universitario di cambiare le cose, insomma ci hanno ammazzato di botte, ma siamo riusciti a inserire dei punti interrogativi. Per fortuna dal mondo arrivavano certe novità che rompevano la monotonia, eravamo reduci da vent’anni di fascismo, prima la monarchia, eravamo un paese abbastanza chiuso. L’apertura è cominciata dopo il ’68. Gli anni ’70 sono quelli delle sperimentazioni, della novità, della possibilità di fare qualsiasi cosa. Poi magari anche di farsi male. Negli anni ’70 contemporaneamente avevo uno studio a Napoli, a Milano e a Roma, ma non ero ricco. Insieme a un amico affittammo uno studio a Roma, insieme a un altro a Milano. C’era un’energia, una voglia di fare, di toccare, di avere esperienze.

 

Facci dei nomi. Quali sono i fotografi napoletani davvero talentuosi e cosa pensi di questo panorama artistico?

 

È una città creativa, credo per la mancanza dell’industria. Abbiamo più tempo per dedicarci alla creatività. Si ricerca, si filosofeggia. Non farmi fare dei nomi…comunque quelli che frequento.

 

Sii un po’ egocentrico. Tutti fanno fotografie, ma non tutti sono Fabio Donato. Cosa ti rende un fotografo di successo, cosa ti distingue dagli altri?

 

Io non sono un fotografo di successo. E’ una domanda terribile. Non ho una risposta, io cerco di essere in equilibrio. Il successo è un’altra cosa. Sono coerente. Le mie fotografie raccontano la mia sensibilità. Credo che questa coerenza emerga dalle mie foto, sono curiose, non assomigliano alle altre, non vogliono sconvolgere nessuno, sono profondamente vere. La chiave probabilmente è nelle fotografie che faccio, credo ti piacciano perché ti piace quello che senti. Sono un reporter della cultura, racconto gli eventi della cultura.

 

Secondo te quali sono le caratteristiche che identificano un fotografo che ha davvero talento? Che cosa consigli a un giovane che vuole fare il fotografo?

 

Deve essere colto, onesto e libero. Se non ha niente da dire, deve tacere. Per dire qualcosa deve avere un ragionamento possibile da proporre. Se ha il vuoto pneumatico in testa, deve colmarlo con la cultura. Se vuoi essere una persona di qualità, devi fare un percorso di qualità. La cultura è tutto.

 

Ti ringrazio per la collaborazione e il tempo che ci ha dedicato.

 

E’ stato un piacere.

Maria Caro

scritto da

Questo è il suo articolo n°444

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