Futuristi, cravatte da combattimento
A partire dalla mostra “I maestri di Terraemotus” alla Reggia di Caserta, il Pantheon di Ernesto Tatafiore si è arricchito con i ritratti dei protagonisti del Futurismo. Accanto ai proverbiali eroi della Rivoluzione Francese, a quelli della Repubblica Napoletana del 99, ai Masaniello e ai Maradona, ora è la volta di Marinetti, Russolo & Co. Passate le celebrazioni del Centenario futurista, con le loro esagerazioni di prammatica, è tempo di ripensamenti e di bilanci. Ed ecco che i nuovi eroi di Tatafiore ci vengono incontro come rievocazioni senza retorica, volti e figure come simulacri, come ombre, muse come statue di gesso, ma dal volto rosso e dal gilet coloratissimo. Balla, Carrà, Depero, Russolo, Boccioni, il visionario mondo del Futurismo, si presenta in tutta la sua enigmaticità e ambiguità nei nuovi dipinti di Ernesto Tatafiore, con il tratto leggero e vagamente ironico, tipico dell’artista.
Si inizia il primo aprile con le “Futuristi-cravatte da combattimento”, in anteprima a “1opera”, la piccola galleria di fronte all’Accademia di Belle Arti, e si continua poi a Berlino alla Galerie Levy con “Futuristi-Kampf Maschine” dove, con limpido rigore, Tatafiore pone i suoi ritratti tra piccole torri, ciminiere, aerei, automobili, scritte, righelli e squadre, che alludono, come trovarobato di teatro, a idee incomparabili e impraticabili.
Dissacratori, polemici, chiassosi, i Futuristi sono ritratti su tele ovali da cui fuoriescono fantasiose cravatte. Tatafiore disarticola ogni immagine accostandola al suo altro da sé, tra continui slittamenti, scarti, ribaltamenti che ci rimandano a un presente tra fabbriche e vulcani e a un futuro tra torri-grattacieli e robot; a una nuova dimensione in cui storia e futuro si intrecciano in un continuo gioco di specchi (ci sono anche anacronistici autoritratti futuristi) che non risolve alcun enigma, ma che anzi li moltiplica all’infinito. Oltre la memoria del ritratto; anagrammi che non possiamo – e in fondo non vogliamo – risolvere. Bragaglia parlando delle sue fotografie disse: «L’estetica del fotodinamismo prende come punto di riferimento le teorie di Bergson, “afferrare ciò che accade nell’intervallo”, compiendo un’opera che trascende la condizione umana». Quali migliori parole per esprimere quel senso di malinconia che Tatafiore riesce a concretizzare rendendo visibile e quasi palpabile quel frammento di tempo (“ciò che accade nell’intervallo”) che fu un ritratto fotografico ed ora acquista un’aura di mistero, dove gli eroi del futurismo appaiano sospesi, immobili, come per effetto di magia. Arcani figuri imperscrutabili, ove si addensano oracoli e prefigurazioni, volti silenziosi, cravatte svolazzanti, macchine da guerra che ci osservano e ci scherniscono.
Il Futurismo di Tatafiore è un oggetto concettuale che possiede l’aspetto dei loro fautori, ma senza movimento e vita: una trasfigurazione che è un tradimento, emblema di questa nostra tormentata umanità che, abbandonate le “magnifiche sorti e progressive”, si scopre d’improvviso sull’abisso e cancella di colpo ogni macchinolatria, ogni Nike alata che continuerà a governare tempo e spazio mentre noi cesseremo di esistere. Il tradimento di Tatafiore – la sua interpretazione – consiste nel frantumare la pluridimensionalità del movimento portandolo nella bidimensionalità del piano della tela, così da realizzare una nuova spazialità non più mimetica, non più multiprospettica. In sostanza, egli scompone l’idea del futurismo nelle sue parti più programmatiche per giungere a una nuova unità che consente la totale storicizzazione del fenomeno. E dopo cento anni, nella nostra contemporaneità, le celebrazioni di un movimento che voleva guardare al futuro, ma era ancora dentro le utopie del romanticismo, o meglio, del decadentismo dannunziano, non possono che incontrare nuovi gusti e diversi linguaggi, mentre un atto di metabolismo ha fatto sì che le invenzioni di matrice avanguardista siano rientrate in quella cultura insieme differenziale e collettiva in cui siamo chiusi: la cultura di massa.
Il Futurismo è stato un’espressione dell’immaginario di un’epoca storica e di uno stadio della società: quell’era industriale a cavallo della prima guerra mondiale. Con “Kampf Maschine”, Tatafiore opera uno slittamento, per dirla in termini lacaniani, per sganciare il Futurismo dall’immaginario e annetterlo al simbolico. E che dire delle figure di donne che spudoratamente si mostrano nelle improbabili “serate antipudiche” forse futuriste dall’antigrazioso di Carrà? Sagome, immagini, muse, oltre la realtà delle loro apparenze, oltre la concretezza dichiarata, ma dentro la nostra interiorità (Tatafiore è pur sempre uno psicoanalista) di sentimenti e desideri e repulsioni, sogni e deliri che ci avvolgono e ci pervadono e che proiettiamo poi sulle mitologie del passato. [Mario Franco]