GJ-The Fashion Atlas: un mappamondo di tendenze
Si può dare una vetrina a talenti emergenti della fotografia e del design senza essere una testata blasonata del fashion, ma soprattutto si può farlo con un criterio qualitativo alto? GJ-The Fashion Atlas è un magazine online in cui menti creative fanno ricerca di tendenze giocando a prevedere quello che verrà, un crocevia virtuale caratterizzato da una ricerca di ispirazioni non solo legate al mondo del web e delle passerelle ma anche a luoghi reali e meno familiari ai cacciatori di trend.
Il progetto nasce in una piccola città lontana dai poli internazionali della moda dall’impegno di Chiara, Max e Francesco e si arricchisce del continuo contributo di giovani creativi che vivono in ogni parte del mondo e in GJ trovano una piattaforma di collaborazione e una vetrina per i loro progetti. Il mappamondo di The Fashion Atlas si completa ogni giorno di storie e immagini provenienti da ogni continente.
Oggi il team creativo ha dato vita a un’agenzia di servizi di consulenza che vanno dalla comunicazione allo styling a dimostrazione che unire le forze in nome di coerenza stilistica e visione globale premia.
Come nasce un progetto come GJ the Fashion Atlas?
Nasce dall’intento di dar voce alle proprie passioni: moda, fotografia, viaggi e ricerca di tendenze. Nasce come idea coltivata da più persone: me, Max Gaeta, professionista nel campo del design, Francesco Caolo, esperto di social media marketing.
Dopo una serie di esperienze in azienda circa quattro anni e mezzo fa ho pensato che potesse essere interessante creare qualcosa di nuovo offrendo servizi alle aziende e parlando di moda in modo diverso.
Inizialmente il nome era “GlamJam”, marmellata di glam, poi si è ampliato con “The Fashion Atlas” perché quello che facciamo è andare a costruire pezzo dopo pezzo un “atlante della moda”, una mappatura quotidiana di tutto ciò che riguarda trend, fotografia e young talents. Il cardine attorno a cui ruota il progetto è dare una vetrina ai giovani talenti: li cerchiamo in tutti i continenti e li inseriamo sul nostro mappamondo ed è interessante vedere come interagiscono tra loro su una piattaforma web, vedere cosa creano designer giapponesi o sudamericani rispetto a designer europei, quindi il mix multiculturale è fondamentale.
Quali sono i pro e i contro del coltivare un progetto dall’alto contenuto fashion lontano dai grandi riflettori della moda?
Parlare di moda come facciamo noi può essere complicato se si prende in considerazione uno strumento come internet. Il nostro pubblico è una nicchia fatta perlopiù di persone che lavorano nel settore moda, non raggiungiamo il target dei fashion blog classici, quello delle ragazze dai 15 ai 20 anni che seguono un idolo e traggono ispirazioni di stile. Abbiamo una fetta di lettori ristretta, non facciamo grandi numeri ma abbiamo standard qualitativamente alti e usiamo il nostro filtro anche per contenuti più semplici e diretti, quando si parla di grandi eventi o di brand già affermati.
Come è cambiata la comunicazione della moda con l’avvento dei fashion blog e di Instagram?
Sicuramente il mondo della comunicazione della moda è in continuo cambiamento, internet l’ha stravolta perché l’ha resa più “fast”. Sia i fashion blog che applicazioni come Instagram consentono a chiunque di parlare di qualunque cosa e questo facilita enormemente il lavoro di ricerca perché tramite una foto su Pinterest si può risalire a nomi ed ispirazioni ogni giorno differenti. Dall’altro lato però c’è il rischio di abbassare gli standard qualitativi: diventa più facile generare fenomeni immediati e temporanei che si affiancano alle figure di professionisti preparati che sanno come si scrive un articolo e come si fa fotografia di moda. Ci sono dei talenti ma bisogna fare una sorta di selezione tra chi è professionista e chi non lo è, per quanto sia difficile capire come questo possa avvenire.
Trovo che ci siano fashion blog molto interessanti, sia nella dimostrazione pratica di come si compone un outfit che nel campo della scrittura ma credo che le aziende di moda non abbiano realmente bisogno di chissà quanti influencer, anche perché non credo portino enormi risultati in termini di visibilità ed introiti economici.
La moda vive di un costante bombardamento visivo e di novità che si accavallano e annullano con una velocità febbrile. Questo vale sia per l’ambito del design che per i contenuti mediatici.
Secondo te cosa riesce ancora a stupire e ispirare?
Gli ultimi avvenimenti legati ai direttori creativi delle aziende ci dimostrano che anche loro non ce la fanno più. La moda sta correndo troppo e siamo di fronte ad un meccanismo che sta per collassare. Abbiamo un’infinità di collezioni, la main, la precollection, la capsule, la cruise, gli special project di star che diventano ispiratori o figure creative. E’ un fenomeno che si sta autoalimentando: la comunicazione corre perché a sua volta la moda corre e siamo tutti alla ricerca di qualcosa di nuovo che ci possa stupire. L’unica soluzione possibile, credo, sia rallentare. Alcuni progetti di giovani designer tra i 20 e i 25 anni mi stupiscono per l’estrema semplicità delle costruzioni ma anche per la predilezione del lavoro manuale e di tecniche artigianali molto più che di stampo industriale. Questo mi fa pensare che le nuove generazioni ci porteranno ad apprezzare una moda fatta di qualità alta, di capi belli e fatti bene. Quello che mi fa dire “wow” è un prodotto che nasce da tanta ricerca ma esprime grande semplicità anche perché al momento la moda punta molto di più sullo styling che sul design, non pensa a vestirci, a rendere un capo confortevole e a far in modo che si relazioni in modo piacevole con il corpo ma a renderci particolari, come se fossimo sempre davanti ad un obiettivo.
Quali sono le fonti migliori per fare talent scouting?
Internet sicuramente ci consente di arrivare con un click dall’altra parte del mondo. Trattandosi di un “atlante della moda” va da se che noi di GJ-The Fashion Atlas viaggiamo molto, Africa, Asia, America Latina e durante i nostri viaggi prendiamo ispirazioni dalla strada. Seguiamo molti eventi dedicati: il Pitti, la fashion week milanese, le iniziative per emergenti che si tengono a Roma.
Dopo Vogue Italia che è la testata di moda per eccellenza siamo stati il primo magazine online italiano a seguire la GFW di Londra, un contenitore in cui ogni anno le scuole inglesi presentano gli studenti ad aziende e stampa, non sono sicura che ci sia ancora qualcosa del genere in Italia. Anni fa durante quell’occasione abbiamo conosciuto un brand emergente che produceva occhiali componibili ed ecofriendly, a settembre dell’anno sorso la designer mi ha scritto avvisandomi del suo arrivo a Milano per un evento di Vogue Talent e mi ha ringraziato per essere stata la prima italiana a parlare del suo progetto. Questo ci inorgoglisce perché siamo una piccola piattaforma.
Tra i talenti emergenti che hai scovato sul web quali ti sono rimasti più impressi?
Il nostro lavoro è bello anche per i rapporti che si vengono a creare, e nell’ambiente della moda questo non è per nulla semplice. L’intervista con Andrea Deppieri, designer veneziano del brand Tete de Bois, mi è rimasta nel cuore, per come mi ha raccontato del suo mondo meraviglioso. Sylvio Giardina che sta facendo un lavoro particolare usando materiali che deformano il corpo femminile, creando silhouette che estremizzano le forme per comunicare che la bellezza appartiene ad ogni tipo di corpo. Xiao Li che utilizza le tecniche knitwear con materiali inusuali come i siliconi. Per quanto riguarda la fotografia Simone Battistoni, diventato poi nostro editor e collaboratore per il bimestrale “Colorimetrie chromie”.
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