I hope I get old before I die
Venerdì 17, di sera, in barba ad una delle più famose superstizioni, è stata inaugurata la collettiva “I hope I die before I get old” che con tale auspicio non poteva avere proprio nulla da temere. Io arrivo puntualmente in ritardo, un passaggio in auto. Pochi chilometri attraverso una campagna pugliese ancora cocente e arriviamo infine nel suggestivo scenario della masseria Sant’Agapito – una masseria, non si sa come, incassata impercettibilmente in un’altura, una di quelle che guardano placide la piana del Tavoliere.
Una collettiva in formato 6×6: sei giovanissimi artisti di diversa provenienza, ciascuno con sei lavori, invitati da Annalisa Mentana a riflettere su uno slogan così paradossale, a confrontarsi con quell’epoca ma contemporaneamente con la propria generazione. E l’hanno fatto su carta, e per lo più con matite, bic e pennarelli…gli stessi arnesi con i quali gli adolescenti sono soliti cominciare a disegnare il mondo.
“I hope I die before I get old” è il verso più emblematico di “My generation”, indiscusso inno generazionale con la quale The Who già nel 1965 intonavano un resoconto della propria inquietudine di baby boomers come di quelle a venire. Leggenda vuole che per questa frase, Peter Townshend, chitarrista e maggiore autore della rock band, si sia ispirato all’estetica decadente di Gustav Metzger il quale nel ’59 pubblicava un “Manifesto dell’Arte autodistruttiva” teorizzando una durata effimera del gesto estetico che andasse da pochi attimi ad un massimo di vent’anni alla scadenza dei quali l’opera d’arte avrebbe dovuto completare il suo processo di disintegrazione, essere rimossa dal suo spazio espositivo e gettata tra i rottami. Townshend pare, infatti, sia stato allievo ad un suo corso universitario proprio in quegli anni.
Questa tensione a rifulgere finché c’è giovinezza è più che altro, quindi, un carpe diem esibizionista.
La rabbia, il rigurgito, “spero di morire prima di diventare vecchio”, in alcuni casi sarà anche un tragico assunto letterale ma il più delle volte si esaurisce nell’effimero e meno rischioso rituale del sacrificio, della distruzione spettacolare di strumenti e amplificazione sul palcoscenico. Nello show televisivo i padri hanno saputo cullare i propri figli ribelli, capelloni. Allora non bisogna forse dar peso più di tanto a quel capriccioso “Perché non sparite tutti lontano?”. Forse non bisogna prendere sul serio la canzone en todo, soprattutto quando nega che si stia “cercando di suscitare una grande sensazione”.
E Laura Lamoratta sembra accorgersene ritraendo la febbre giovanile di eternarsi in pose icastiche, di atteggiarsi a ieratiche copertine di rivista. Una generazione esibizionista in maniera innata, vaccinata com’è sin dall’infanzia al rigurgito Una generazione che, rodata da quelle che l’hanno preceduta, ha ormai assimilato la raffinata ed effimera arte dei divi di “bucare lo schermo”, imparato a declinarla nelle minime occasioni del povero vissuto quotidiano.
Dario Molinaro si confronta con la stessa generazione alienata, inebetita e intrappolata in un immaginario tutto “tubocatodico” che interferisce prepotentemente e in maniera indelebile con il flusso della memoria e del desiderio, ne detta le forme e si sovrappone ai tradizionali archetipi.
Quella che disegna Dario è un’adolescenza in limbo: mai stata realmente infanzia, non ancora adulta. E ce ne fa rivivere come in un incubo i suoi flash. Oltre le cornici – altrettanto smembrato e nel tricolore britannico tipico del movimento giovanile Mod – lo slogan della mostra assurge a epitaffio generazionale tra due teschi che incombono su due teste di bimbo, come se ne fossero la sostanziale radiografia.
La parola torna di peso con Raffaele Siniscalco. I sei versi cruciali di “My generation” vengono parafrasati a cavallo di due colori, il rosso e il nero, dalle fattezze torbide e viscerali. In questa netta dicromia a forti tinte infernali si dispiega il tao del conflitto generazionale. Sei gironi danteschi, in uno Stige tormentato di anime costrette in grappoli, in arnie affollate: “noi” e “loro” modulati alternamente in senso ora ascendente ora discendente, poi centrifugo, fino a trovare sintesi e quiete nella croce immobile sul Golgota: archetipo del figlio mandato a morire dal padre ma anche il prototipo del suicida per vanità.
Il cristo suicida con ai piedi un didascalico “I hope I die before I get old” preannuncia così il girone che definiremo dei suicidi veri e di uno presunto.
Sei giovani celeberrime icone del rock nei sei piccoli ingenui ritratti di Elbluo (Giacomo Bagnara). Il mito ridimensionato, rimpicciolito, restituito ad una dimensione di normalità, di serenità infantile e domestica, di foto che una mamma orfana del figlio mette sul comodino per placare il proprio dolore. Mezzi busti, il bianco dietro di loro a sottolinearne la diversità, lo smacco, al contempo avvolgendoli in un alone di purezza, di eternità raggiunta. Dormienti di un sorriso beffardo che solletica in noi l’enigma di quel loro gesto estremo, del loro congedo precoce dall’esistenza.
Soddisfazione in tal senso potrebbe venire dai ritratti che Pierpaolo Febbo fa di Nick Drake, Elliot Smith e Dennes Boon dei Minutemen.
I loro volti sembrano invitare lo spettatore ad avvicinarsi un attimo e volergli concedere delle fugaci confessioni circa il movente, le “private” ragioni della loro morte. Ma la parola è feto abortito in un fumetto floscio e muto, rivela la sua insensatezza. Contrariamente a quanto fa Dante con i suoi suicidi famosi, qui la compassione dell’artista riserva un’ascensione piramidale, per loro si impone la certezza dei Campi Elisi.
Calcando le orme di quel qualcuno duemila anni prima di lui, anche Cosimo Piediscalzi recita un ironico suicidio di redenzione. Nel far dono di sé l’artista finisce con l’indugiare e dare mostra di sé. Un sé che con un pizzico di vanità si compone di angolazioni diverse, e in queste si scompone fino ad evaporare. Tutto in un cortometraggio ampio quanto due braccia stese sulla croce, da un chiodo all’altro: dalla croce con la data di nascita a l’altra con quella di morte prospettata ovviamente all’età canonica di trentatré anni.
Certo bisogna volersi non poco male a darsi appuntamento con la morte nel 2011, giusto un anno prima del probabile spettacolo degli spettacoli: la fine del mondo secondo il calendario maya.
Onestamente: I hope I get old before I die
articolo di Giuseppe Santoro
foto gentilmente concesse da Annalisa Mentana