I love you Teddy
l mio primo ragazzo è stato un pelouche. Avevo 6 anni e avevo ereditato da mia sorella questo enorme pelouche a forma di orso. Non gli avevo dato nessun nome però per lui mi facevo bella, andavamo a delle feste magnifiche e ballavamo il valzer. A volte però volevo che fosse una mia amica e gli spiaccicavo il rossetto sul muso e lo smalto sulle zampe. A parte lui credo che nessun pelouche abbia mai avuto nessuna rilevanza emotiva nella mia vita. A quanto pare però non è così per un mucchio di gente, che nei pelouche riversa un sacco di emozioni, frustrazioni e aspettattive. In quel caos primordiale che è diventata la sfera affettivo-sessuale della gente oggi, pare che i pelouche ricoprano un ruolo abbastanza strano e controverso sotto diversi aspetti.
Al di là di quello che lo scontato teddy bears rappresenti nell’iconografia moderna e contemporanea, nonché cosumistica e del posto che occupa nell’immaginario collettivo, di sicuro, i peluche dei bambini hanno da sempre scatenato torbide fantasie. Nel film cult del 1984 “The Gremlins”, diretto da Joe Dante e prodotto da un giovane Steven Spielberg, dei teneri e misteriosi animaletti comprati in un negozio di cianfrusaglie di Chinatown, i Mogwai, partono come dolci pupazzetti e si trasformano in orrorifiche creature pericolose. Non so quanti ci abbiano fatto caso ma un’azienda prodruttrice di giocattoli ha messo in commercio alla fine degli anni novanta degli “esemplari” di Furby, pupazzi spaventosamente identici a quelli del film, ancor più inquietanti perchè spacciati come i primi peluche capaci di apprendere parole (per lo stesso motivo I Furby sono stati vietati dalla NSA (National Security Agency) in quanto notizia fasulla) di cui ne sono stati venduti 40 milioni di esemplari nel mondo. Mica male. Anche il classico Teddy Bear ha avuto una serie di comparsate sullo schermo in versione horror, ma molto più terrificante è una notizia del 2007 che riportava il caso di un’insegnante sudanese condannata a quaranta frustrate in pubblico (poi graziata), con l’ accusa di vilipendio del profeta musulmano, avendo permesso ai suoi allievi di sei e sette anni di chiamare ’Maometto’ un orsacchiotto di pelouche. Meno significativo ma sicuramente più singolare è il caso di una ex commerciante tedesca che ha deciso di aprire un’agenzia di viaggi per pelouche. Ebbene si, Ulrike Bohmler ha dichiarato che la sua agenzia sta ricevendo centinaia di richieste e prenotazioni, dalla Germania, dall’Inghilterra e da altri paesi europei, da persone che vogliono mandare in vacanza i loro soffici e teneri amici. L’agenzia scatta istantanee che immortalano gli animaletti in posti e scenari famosi e alla fine del viaggio le invia ai padroni insieme al loro piccolo amico. “Potrebbe sembrare una follia“, ha dichiarato Ulrike, “ma i miei clienti amano e trattano i propri peluche come se fossero vivi e danno loro il meglio.” Eppure l’iniziativa di Ulrike non è un caso isolato, anche il Repubblica Ceca un artista ventiduenne sembra stia riscuotendo un discreto successo proponendo tre diversi tipi di pacchetti di viaggio a seconda delle esigenze, dai novanta ai centocinquanta euro con tanto di profilo su Facebook del pelouche, Mixi, Twitter con appunti di viaggio, un trattamento di aroma terapia immortalato in foto, un massaggio ed e-mail giornaliere al ‘padrone’. Beati loro.
Ma quelli dei ToyTravel non sono gli unici a pensare che i pelouche soffrano di forti stress, infatti sul sito parapluesch.de è stato creato un gioco di simulazione per adulti, in cui il giocatore si sostiuisce ad uno psichiatra tedesco, il dottor Kindermann, e assiste dei peluche ricoverati in una clinica psichiatrica per pupazzi. Il gioco è impressionantemente realistico e permette di sottoporre i pupazzetti a lunghe visite a base di ipnosi, psicanalisi, analisi dei sogni, esami di ogni genere per poi formulare una diagnosi realistica di psicosi, nevrosi o trauma e shock. Ma è digitando la parola furry (peloso) su Google che si aprono gli orizzonti più vasti. Ci sono vere e proprie enciclopedie sul web che tentano di classificare e vivisezionare tutte le sfumature di un fenomeno che tocca sessualità, identità sociale e antropologia. Si indica infatti con il termine “furry” tutto quanto è relativo agli animali antropomorfi, nell’arte, la fantasia e la mitologia. Nella sua declinazione fandom per esempio il furry viene fatto risalire al 1973 anno di uscita del film Robin Hood della Disney, primo film di alto livello interpretato da furries (cioè animali con comportamenti umani), è certo però che questo abbia assunto le dimensioni di un vero e proprio movimento culturale underground, con milioni di persone che sono attratte e attirate dall’idea di interpretare il ruolo di un pupazzo, di assumere le sembianze di qualcosa di peloso, di avere rapporti sessuali con altri simili o semplicemente di amare l’idea di essere metà uomo metà animale.