Ice age di Martino Cuozzo
Mano che stringe, gocce che imperlano la mano, stanca e rugosa
schermo fluorescente, tre anziani coreani a un lemon party che s’incastrano tra culi e bocche intensi, la mano cerca qualcosa che assorba il sudore del corpo, che lo netta, deterga l’impudico.
Cacci via questo senso di appartenenza al piacere.
Il vecchio, stanco nel corpo cerca il letto, nella stanza accanto dove la seconda moglie dormiva sporadica, deliziandolo con danze e balletti sconci, chiedendo, cercando un piacere che alla sua età poteva permettersi ma a cui lui non poteva accedere se non con strumenti che forzavano il suo desiderio.
Riempiva di coca il suo vecchio uccello rugoso, lo abbottava di pillole gialle e blu, mostrando potente la sua virilità.
Ma ora quel letto era vuoto, freddo scaldato dalle sue nefandezze, dal desiderio di altri uomini che gli cingessero i fianchi, stringendolo a se e penetrandone l’animo gentile, discreto e ascoso che non mostrava più a nessuno.
Nessuno doveva sapere, nessuno gioire dei piaceri della rete a cui lui s’abbeverava, oramai da quando V. l’aveva abbandonato, sempre più spesso, non contravveniva a quel piacere solingo che poteva rubare ad ogni istante del giorno.
Sollevata la coperta fetida s’infilava nel rancido desiderio d’altri sogni fino a mattina a sognare, belle giovinette fresche di carne da fare a brani, maschio, maschio, maschio lo cullavano i sogni crudeli.
Al risveglio sporco di piume s’aggiustava il viso stanco degl’anni; prima che Martina e Pierlivio oramai adulti venissero a notare piccoli avvoltoi, lo stato di decrepitezza del vecchio che dai suoi settantacinque anni ritoccati a ogni giro di giostra, sembrava il buon Pilade sfatto da anni d’Erebo, uno sguardo felice da cucciolo gioioso radiante, asservito a un dolore incessante che non smetteva mai d’adombrare i suoi occhi. Pietosi gli aiuti a sollevarlo dal fetido giaciglio, giallastro per rimetterlo al mondo alla giornata, passava correndo una giornata tra il lavoro debilitante, il cerone, le parole e le attese fremendo in ogni secondo possibile per una toccatina, cercando il suo sesso e la rete perversa (contenente i suoi arcani piaceri) ogni schermo diventava l’accesso a un mondo di sogni bagnati e di uomini amorevoli.
Tornato a casa, attendeva una chiamata che lo riportasse alla realtà, squilli notturni, una voce stentorea e acuta riconosciuta nel tempo.
Corse verso la casa di quell’amico che lo attendeva, gobbo e occhialuto come un vecchio pretino di periferia, abituato a sozzure internazionali insieme all’altro insospettabile sacro bonzo che tutti credevano morto lontano, percorse gli isolati nell’auto blu lampeggiante fremendo l’attesa, tremando ogni istante.
Avrebbero fatto l’amore, si sarebbero ricoperti l’uno del seme dell’altro e l’avrebbero ingollato mai sazi, sarebbero stati grandi, uniti anche nell’amore oltre che nel marcio che li legava da trent’anni, certo Giulio e Bettino si erano amati di nascosto per tanto tempo, ma lo avevano oramai accettato, anche se era del Nord, il turbine di emozioni cresceva e così tra le sue gambe una greve erezione, in quella afosa nottata di giugno, contento si strinse in mano il membro e cominciò a spingere più forte con la sua mano, e crescendo il piacere cresceva l’affanno, mancava la vista.
Trovarono Silvio morto in un laghetto di seme ancora fiero mascolino ed eretto mentre guardava le vecchie foto di un’infanzia perduta che questo paese non riavrà mai.
[testo di Martino Cuozzo]