Il costruttore di voliere
Era rimasto in un angolo del mio cervello, come una piccola riserva di eccitazione alla quale attingere solo in caso di necessità: la sua presenza iniziava a non essermi così fortemente indispensabile e in quei giorni mi accontentavo di ricordarmi i suoi occhi. Alex in fondo era un pezzo di realtà che stavo divorando. Senza avanzare nulla: io ero meglio di lui. Ero meglio degli altri e di un mondo che stava bruciando inesorabilmente: rogo funesto e luttuoso. Le giornate erano un ciclico sgretolarsi e ricomporsi di immagini della mia lunghissima vita in cui l’impulso a nutrirmi era irrefrenabile. Uscivo e mi lanciavo dentro le notti come un ariete, e il mio viso di bambola fintamente distratto era la migliore esca: gli uomini si avvicinavano per offrirmi compagnia come le peggiori puttane. Creature insulse. Si meritavano la sofferenza che infliggevo loro.
Si spalancava un’altra notte: la caccia era aperta. Nonostante tutto. Nonostante Alex e la sua cupa assenza entrai nel locale. Spazio buio e fumoso: una sorta di grande voliera in cui ragazze variopinte volteggiavano fra piume soffici e brillanti, affilando i preliminari del corteggiamento mentre i ragazzi, ignari, stavano già cadendo nelle trappole. Mi avvicinai al bancone. Il barman mi sorrise e si avvicinò protendendosi per ricevere l’ordinazione. Si accostò al mio viso: aveva uno splendido collo e io avevo trovato la mia preda. Tuttavia non riuscivo ad avvertire alcun interesse per il suo umano pulsare e, rapidamente, l’epicentro della mia attenzione divenne la cannuccia nerolucida fra le mie dita. L’eccitazione non arrivava. Mi stavo annoiando. Improvvisamente mi sentii afferrare i fianchi. “Ciao Cleo” la voce di Alex s’insinuò dietro la mia nuca e in pochi secondi mi trovai nella sua morsa. Lo vidi indugiare sulle mie gambe inguainate dalle calze a rete. La rete della mia vanità. La rete che non lasciava scampo. Caduta libera. Questa volta nella mia voliera. Senza rete.
Avvertii uno sbattere furioso di ali contro le pareti dello stomaco. Nella gabbia. Avrei voluto averlo già sotto le mie dita, nella mia bocca. Registrai mentalmente i suoi occhi, la sua pelle, la sua voce, replicandoli all’infinito per non scordarmene quando tutto si sarebbe concluso. Potevo sentire l’odore del suo sangue, potevo ascoltare il battito che senza tregua lo faceva scorrere in un percorso invisibile e ciclico, caldo e veloce sotto ogni millimetro della sua pelle. Avrei voluto abbracciarlo. Prenderlo a schiaffi. Dirgli che davanti a lui c’era una regina e con lei un regno antico di secoli. Ma in fondo non importava poi molto perché vedevo solo i suoi occhi liberi e tenaci sotto la maschera di una seduzione lucente e sensualmente ingannevole: del resto era proprio quella che anch’io, per secoli, avevo indossato per alimentare il demone che ero.
In poco meno di un’ora mi ritrovai scagliata in un’altra dimensione. Alex si protese tendendomi le braccia e invitandomi a scendere dall’auto. Su un enorme cortile circondato da folte siepi di verbasco si affacciava un maestoso palazzo. Percorremmo il lungo porticato dell’edificio sotto una parata di fiaccole: Alex non disse nulla limitandosi a porgermi il braccio e a farmi strada sulla ghiaia lucida come ghiaccio trito sotto una luna densa di presagi. Raggiungemmo una grande porta: lui entrò spalancandola su un’ampia sala dalle pareti completamente affrescate: un lago con piccole imbarcazioni sul quale si stagliavano verdeggianti pianori, un mare incattivito da una tempesta e onde spumeggianti che s’infrangevano rabbiose contro una scogliera. Tutto era immerso nella penombra. Alex mi tirò a sé: cominciò a sganciare lentamente il bustier che scivolò a terra come la pelle di un animale in muta. Con un gesto fulmineo mi atterrò, immobilizzandomi. Infilò impaziente una mano sotto la gonna fino a raggiungere le autoreggenti e, con una forte pressione nell’incavo della coscia, a scostarla dall’altra. La mia notte stava riemergendo dal suo limbo. La preda stava facendo il proprio dovere e la mia caccia stava per giungere a termine. Il suo viso ansimante sopra di me era l’invito che stavo aspettando. La mia eccitazione si alimentava della mia famelica voracità.
Fui assalita da un senso di vertigine. Avevo bisogno di cibarmi. Subito. In quel momento avevo l’urgenza di ritornare nel mio mondo, sul mio trono. Volevo possedere solo il mio corpo, solo me stessa e la mia regalità. La mia immortalità. Ma il sangue di Alex era un fiume in piena, schiumante, pulsante. Era la mia estasi, era la proiezione del mio potere sulla fragilità umana, era la visione dei miei piedi inanellati e scalzi nelle mie stanze, delle mie vesti nere e cupe come pipistrelli in volo. Era il colpo di falce che stava per abbattersi. Alex, adesso sotto di me, mentre il vortice delle mie visioni restava impigliato nei suoi capelli corvini. Lo guardai un’ultima volta preparandomi a depredarlo della sua vita mortale per donargliene una eterna.
Rapida appoggiai le labbra rosse nell’incavo del suo collo. Le socchiusi in una leggera pressione dei denti sulla sua pelle morbida.
Ebbi un dolore acuto al petto, insopportabile. Serrai la bocca, le mascelle, per non vomitare. Istintivamente cercai di aggrapparmi ad Alex che già si stava divincolando. Si alzò guardandomi come si guarda il cielo per capire se sta per piovere: nella sua mano un punteruolo, la sua camicia tinta di un rosso cupo. Occhi negli occhi e nei miei la supplica e la domanda. “…ma….cosa….Il mio sangue….il mio…” Sentii il cuore squarciarsi: lo percepivo aprirsi sotto i seni. Chiusi gli occhi nel dolore e nella stupefazione di ciò che stava accadendo. Il tempo, i secondi. I secoli. Tutti i miei secoli. Mi parvero grani di sabbia dentro una piccola clessidra in un percorso all’inverso, risucchiati dall’alto. E io così. Risucchiata. Senza più difese. Senza più un regno. Quella notte consumò la mia immortalità. E consegnò al mondo Alex. Il nuovo demone.
Testo di Michela Alesi – scarica la sua biografia
Foto di Alessandro Gallo – scarica la sua biografia