Intervista a Blek le Rat, l’arte e il potere delle immagini
Sono in anticipo di un paio di minuti e intravedo subito Xavier Prou, a.k.a. Blek Le Rat, che chiacchiera nella nuova sede milanese di Wunderkammern. Mi sorride, come fosse un lontano amico di famiglia e mi mette subito a mio agio. Troviamo posto in un angolo della galleria, che dopo un paio d’ore avrebbe aperto le porte al pubblico curioso di questo “ratto” venuto ad esporre a Milano, definito da tutti il padre di Banksy. ziguline non poteva lasciarsi sfuggire un incontro del genere con il “Grande Blek” e in questo articolo vuole condividere la bella chiacchierata avuta col pifferaio magico della street art.
Ci può raccontare della sua carriera? Come ha iniziato? Quali sono i principi che hanno ispirato i suoi primi lavori?
Ho cominciato nel 1981, all’epoca avevo trent’anni e mi ero appena laureato in architettura, con un lavoro sui parco giochi, non-luoghi, e avevo notato che i bambini dipingevano, venivano al parco muniti di pittura e pennelli e dipingevano le mura della casetta in cui lasciavamo i nostri attrezzi. Questo episodio mi ha dato l’idea di dipingere dei graffiti. Non che mi sia venuto in mente così all’improvviso.
Dieci anni prima avevo fatto un viaggio negli Stati Uniti, a New York, avevo vent’anni e lì avevo visto i primi graffiti mai realizzati in metro e sui terreni da gioco, in cui i giovani giocavano a basket. All’epoca era una produzione molto grezza, sporca, ma al tempo stesso nuova e, vederli per la prima volta, mi ha fatto riflettere molto. Mi ricordo di aver chiesto all’amico che era con me, Larry, che cosa fossero e lui mi aveva risposto “non ne ho idea, è molto strano, sono fatti da certi tipi strani, non lo so”. Era davvero qualcosa di nuovo per me, non esisteva nulla del genere in Europa e mi sono detto “sta succedendo qualcosa di veramente importante”. Però quei bambini che dipingevano disegni stilizzati mi hanno spinto a dipingere a mia volta.
Potremmo definirle moderne pitture parietali alla Lascaux…
Esattamente. Dico sempre che i primi stencil (pochoir n.d.r.) erano le grotte di Lescaux, perché gli uomini primitivi utilizzavano la stessa tecnica in uso ancora oggi. Mescolavano acqua e pigmenti colorati e soffiavano. Non siamo poi migliorati molto.
Credo che per loro fosse un modo di lasciare una traccia. Era e lo è ancora per me e per gli altri street artist. Volevo lasciare una traccia a Parigi, avevo proprio la netta sensazione di lasciare una traccia. Siamo molto anonimi nelle città moderne. All’epoca ero uno studente, seguivo le lezioni all’università, avevo degli amici, certo, ma non è che avessi una vera vita sociale. Mi sentivo davvero anonimo. E se ho cominciato a fare dei graffiti non è stato per diventare famoso – cioè un po’ sì (ride n.d.r.) – ma è stato per lasciare una traccia.
Il magnifico potere delle immagini…
Ho avuto modo di sperimentare la forza delle immagini quando la giornalista francese Florence Aubenas è stata sequestrata in Iraq. Nessuno ne parlava, o se lo facevano erano davvero poche le notizie sulla sua storia. Ho fatto una specie di campagna per lei, ho tappezzato le strade di Parigi con il suo ritratto, era il 2005. E ho avuto una risposta velocissima. Dopo pochissimo tempo i media hanno cominciato ad interessarsi a lei e alla sua storia e hanno cominciato a contattarmi, per chiedere chi fosse quella donna, cosa facesse, ecc.
Noi francesi diciamo “la sauce a pris” (ha sortito effetto, ndr) e c’è stata un’enorme ripercussione. Non sto dicendo che sia grazie a me, ma ho contribuito, affinché i media ne parlassero. L’ho incontrata successivamente e mi ha detto che aveva visto il suo ritratto e si era riconosciuta. È stato un bel momento per la mia arte. C’è stato un impatto. Bisogna far passare dei messaggi importanti e non i soliti slogan.
Che cos’è la street art per lei?
È una parola individuale, che può essere condivisa con la collettività. È un artista, ma è anche un uomo comune o una donna, che visualizza un’immagine, una parola o una frase e che la regala alla collettività. Può essere molto pericoloso, molto bello o poetico, ma può essere anche molto pericoloso. È per questo che è illegale. Dappertutto. Il potere ha paura della parola individuale.
Sì, soprattutto se pensiamo a quello che è successo a Parigi. L’immagine che è arrivata in Italia, sui giornali e tramite i media in generale, è stata di grande coraggio collettivo. Ci hanno mostrato un popolo unito, ma una collettività, nessuno ci ha mostrato come si sentiva ogni individuo e come ha vissuto e reagito ai fatti di Parigi. Ho avuto l’impressione che lo scopo fosse quello di manipolare la collettività e non farla riflettere testa per testa, individuo per individuo, ma riunire ogni singola persona in un unico grande amalgama.
È questa la propaganda dello Stato. È fatto per addormentare le persone. La gente non sembra rendersi conto di quello che sta succedendo…
Le ho chiesto tutto questo perché lei ha cominciato a dipingere utilizzando come simbolo un ratto e sostenendo che “i ratti sono gli unici ad essere davvero liberi”. È ancora oggi così. C’è ancora qualcosa di veramente libero oggi?
No. Non c’è nessuna libertà. Ci fanno credere che siamo liberi. Siamo fatti per lavorare, produrre e consumare. Ci danno l’idea di libertà, ma in realtà viviamo tutti sotto un’oppressione che viene dall’alto, fatta della gente dell’élite e loro stessi non vogliono che siamo liberi. Abbiamo solo una vita, ma non è libera. È una parola enorme la libertà, quasi una bestemmia. Quando ero giovane ero militante nel Partito Comunista e riflettendoci ora ho l’impressione di essere stato manipolato.
Sì, mi viene in mente una poesia che dice: “Métro, boulot, bistro, mégots, dodo, zéro” (metro, lavoro, fast food, mozziconi, nanna, zero, ndr), che è un po’ il manifesto dell’anonimato dell’uomo moderno. Ma “revenons à nos moutons”, torniamo a noi. L’esposizione che inaugura stasera. Può dirci qualcosa di più?
Sì, è la prima volta che espongo in Italia. Conosco molto bene questo paese e ho sempre sognato di esporre in Italia, perché è la culla dell’arte. È nato tutto in Italia e sono sempre stato molto influenzato dalla pittura italiana, soprattutto il Rinascimento e l’arte antica. È come una consacrazione, come un ritorno alle origini dell’arte. Certo, se dovessi pensare ad una città in cui identificare le origini dell’arte italiana direi Napoli in primis, insieme a Roma e a Firenze. L’idea di esporre gli stencil è stata pensata insieme ai galleristi e non li avevo mai esposti in una galleria. Faccio parte di un movimento di street artist e cerco di esportarlo e farlo conoscere e soprattutto far capire alle persone che non si tratta di vandalismo, ma di arte. Quando creo un’immagine in strada è un regalo che faccio alle persone, non voglio certo aggredirle. È un’arte ancora incompresa, perché è nuova, un nuovo stile, un nuovo modo di pensare e queste cose sono sempre difficili da accettare.
Progetti per il 2016?
Un’esposizione a Chicago, un’altra al museo di Malaga e a Brighton a giugno. Insomma, l’anno sembra iniziato col piede giusto.