Intervista a RERO, che forse non ha mai fatto un aperitivo in vita sua
Incontro RERO un pomeriggio di luglio, a via Ostiense. Fa un caldo cane. Non lo conosco di persona e ci sono almeno quattro persone impegnate coi pennelli su un muro che è davvero bello grosso, quindi non so proprio con chi parlare. Ad un certo punto si avvicina un tipo alto quasi due metri che più che un artista sembra un editor brizzolato con un sorriso ed un tono di voce che ti fanno pensare che non abbia mai fatto un aperitivo in vita sua. Sembra quell’amico della tua fidanzata che è bello e adorabile e che ti fa incazzare perché sei geloso e sai che non dovresti, che lui è così adorabile di natura e non ci sta provando. La mia fidanzata non c’è, ed io non sono per niente incazzato. Piuttosto – e ve lo garantisco, ho il cuore più duro del cazzo di Gasparri davanti a un balletto di Roberto Bolle – leggermente affascinato.
Parlaci di te, di come hai iniziato a fare quello che fai. Di come sei diventato RERO.
Ho iniziato a fare arte interessandomi ai graffiti, copiando il New York Style e il Wild Style dei graffiti d’oltreoceano. Ho poi iniziato ad andare oltre quel riferimento, ad approcciarmi al muro in modo più personale. Ho iniziato ad andare oltre i graffiti. Non ho avuto dei genitori che mi portassero in un museo, ed i graffiti sono stati la prima possibilità concreta per comprendere che c’era un modo per esprimere me stesso in qualche modo. I graffiti sono molto più immediati dell’arte museale, danno un accesso molto più semplice alle potenzialità dell’arte.
Dicci qualcosa a proposito di Image Negation.
E’ un’immagine formata da un testo. Quello che vedi non è quello che prendi, quello che ottieni. E’ piuttosto una rappresentazione di ciò che vedi, è come se venisse in luce quello che tu stesso metti in quello che stai vedendo. Sei tu a creare quella realtà. L’opera che ho fatto per Outdoor si chiama Supervising Independence, è un ossimoro: due concetti contraddittori, qualcosa cui è difficile dare senso. E’ un po’ come quello che stiamo vivendo, il nostro mondo è contraddittorio. Il commercio, il capitalismo estremo che viviamo è qualcosa che esplode in una galassia di contraddizioni che fanno a meno della necessità di avere un senso.
E la tua scelta di cancellare le due dichiarazioni, le tue parole?
Basquiat fu il primo a “crossare” i suoi graffiti, le sue frasi, e diceva che era un modo per sottolineare e mettere a fuoco le sue parole. Kosuth cancellava per rendere presenti le cose che cancellava, per rendere più presente il soggetto che le affermava. Per far sì che quelle dichiarazioni si mostrassero come estremamente ‘soggettive’, e dunque più deboli, più contingenti. Le mie parole non sono La Verità, ma sono una suggestione, uno stimolo, qualcosa che deve cambiare ed essere cambiata nel tempo e negli avvenimenti.
… è qualcosa contro l’autorità dell’autore, la sua dittatura?
Sicuramente. La cosa più importante è avere un segno di cui puoi appropriarti, che puoi cambiare e che ti può cambiare. Qualcosa di vivo. Per me è come un gioco, è uno strumento che metto a disposizione. Just Act. E’ un invito ad andare oltre quella dichiarazione stessa.
Come definiresti quello che fai? Street Art, conceptual art?
Contextual Art, arte contestuale. Ho un approccio molto semplice. La cosa più importante è che il testo, la parola, l’azione, da sola è debole. Il contesto, da solo, non è interessante, è morto. Facendo interagire le due cose succede qualcosa di buono, qualcosa di importante, qualcosa che rende vivo quel posto. Per me non esiste la violenza, la cattiveria, il male: è il contesto a crearle, l’interazione tra persone e contesto. E’ quell’interazione che fa succedere le cose, è in quello spazio che avviene la storia. Il mio è un invito ad agire nella realtà. Sii la realtà, sii nella vita e non nella rappresentazione della vita. La street art non può essere arte, è una parola senza senso. Quello che si definisce street art è piuttosto street expression, un’interazione che avviene nelle strade. E’ una proposizione che vive nell’interazione con l’ordinario, una proposizione grafica.
I tuoi lavori si trovano in contesti fatiscenti, degradati, abbandonati. Perché questa scelta?
Per il Tempo. Roma, per esempio, è una città che ti fa respirare il passaggio del tempo in ogni sguardo. Sono attratto dai posti che, col tempo, smettono di essere utili alla gente, smettono di avere una funzione. Nessuno si cura più di quei posti, perché smettono di essere utili alle attività umane. Interagendo con questo tipo di posti le persone significa mettere a fuoco cose come il passaggio del tempo, il fatto che qualcosa è avvenuto in quei posti. E’ come se essi diventassero dei Memoriali, dei monumenti a delle umanità che non sono celebrate in modo ufficiale ma che per questo non sono certo meno importanti.
L’Italia è molto legata all’arte figurativa. Come reagirà la gente ai tuoi lavori?
Ho avuto paura quando mi hanno invitato a Roma. L’ho sentita come una sfida, interagire con una città artisticamente importante e difficile come questa. Vedi tutti questi monumenti che ti guardano ed è come se ti dicessero “ok, adesso è il tuo turno”. Come se la storia delle umanità passate ti mettesse in mano la responsabilità dell’umanità presente, della sua storia. Supervising Independence significa anche questo: sei indipendente, ma allo stesso tempo la storia ti controlla, e tu hai una responsabilità nei suoi confronti.
Molti tuoi lavori si riferiscono all’informatica, al modo del WEB. Perché?
Quello che vedi sullo schermo può essere stampato nello stesso modo. E’ come se l’informatica abbia messo in mezzo al processo creativo, quello che prima passava direttamente dalla persona all’opera formata, un gradino. In questo senso sullo schermo appare una pura RAPPRESENTAZIONE dell’opera, qualcosa che non è né persona e né opera ma un passaggio e un collegamento tra i due.
La tua arte ha qualcosa di politico?
Ogni cosa che fai ha delle conseguenze, e dunque è politica. In questo senso di sicuro. Ma la politica non mi piace laddove suggerisce delle soluzioni, una direzione ben precisa. Mi piace di più porre delle domande, e suggerire degli stimoli per trovare eventuali direzioni che non saranno mai “quella giusta”. Io domando, prima di tutto a me stesso. Non c’è nessuna Verità Unica. Io non pretendo di avere una risposta, la domanda è molto più importante. Questo è il mio approccio.
Quale trovi che sia il modo peggiore in cui le immagini sono utilizzate attualmente? Il marketing, i social network”
Il marketing. Per me ogni immagine usata per pubblicità commerciale è un falso, qualcosa da cui scappare via. Di solito mi rivolgo alla pubblicità pensando che essa rappresenti qualcosa in modo esattamente contrario a ciò che è in realtà. Pensa a quella pubblicità che ti diceva ‘Think Different’.
… penso anche a quella che diceva ‘Be Stupid’. In questo senso credo sia davvero più onesta.
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