Stefano Nocchi aka Lemon
Funziona così: ti segnalano un fotografo, osservi il suo lavoro, ti piace, decidi di farci su un intervista. Per scrivere le domande, però, ti serve saperne di più, trovare un filo conduttore, pensare a ciò che, se ce l’avessi davanti, ti piacerebbe sapere. Ti informi su quel fotografo e scopri un mondo fatto di video, di pubblicità, di grafica e disegni e tutto ciò che noi comuni mortali del terzo millennio consideriamo ‘lavorare con le immagini’. Uno che potrebbe essere un ragazzo oppure un uomo, che potrebbe vivere in USA oppure averla solo sognata, uno che prima di usare la macchina si fotografa le idee nella testa e poi le stampa con quello che ha sottomano . Il filo conduttore va beatamente affanculo, e tu ti ritrovi con la semplice esigenza di capire che cosa possa significare concentrare tutta quella roba in una persona sola. Ti trovi con l’esigenza di dare una forma unitaria – almeno biologicamente parlando – a quell’universo creativo. Ebbene, qua sotto ci sono 11 domande e 11 risposte: tocca solo unire i puntini.
La prima domanda è di riscaldamento: perché Lemon?
Innanzitutto grazie per l’intervista. La vita è fatta di momenti belli e brutti, di bianco e nero, così il limone, dipende da come lo utilizzi, può essere aspro o dolce: sta a te assaporarne l’essenza. Ecco per farla breve, spremiti la vita fino all’ultima goccia, aspra o dolce che sia.
Nella voce ‘works’ del tuo sito compaiono: fotografie, flyer, video pubblicitari, lavori di mapping, di web design, video musicali, progetti che si potrebbero dire performativi (Radio Alcolica). Come ti definiresti?
Mi definisco una persona eclettica, iperattiva, “arrapata”, incapace di stare fermo che lascia viaggiare la mente e con la classica, come se dice a roma, “voglia de fà”. Una persona che fa design o arte senza darsi troppe arie.
Tutto quel popò di cose diverse, eppure tutte fatte – mi pare – davvero bene. Non riesco a immaginare il tuo percorso, come hai fatto a specializzarti in tante cose. Io ho 26 anni e non so fare niente: mi vuoi svelare qualche trucco?
Il mio percorso è piuttosto atipico. Il “trucco” se così si può chiamare sta nel fatto di avere sempre fame. Il mordente è il succo della vita. Magari la domanda può essere a questo punto dove trovi il mordente. E’ una voglia matta di riscattarsi, di crescere, di accettare le sfide e di migliorare di giorno in giorno. È la mancanza di qualcosa che ti rende affamato di qualcosa. Se pensi che a 16 anni volevo lasciare il liceo per fare il pizzaiolo, puoi capire quanto è imprevedibile la vita e quanta voglia di riscatto mi bolle nelle vene.
Nasco facendo web, poi video e fotografia, adesso sto in pubblicità, che combina un po’ tutto.
Per essere un buon creativo o artista non bisogna limitarsi alla semplice qualifica di designer o photographer, bisogna tenere il cervello attivo, farne uno stile di vita. Il mondo è così in rapido movimento che chi era prima fotografo adesso è architetto, chi grafico adesso elettricista o peggio, disoccupato. The slower we move, the faster we die diceva un film qualche annetto fa. Bisogna tenere attiva l’ispirazione, che puoi trovare ovunque, anche al cesso. Non esiste un manuale del perfetto creativo. Magari un giorno sarò io a intervistare te, che ne sai.
Che rapporto hai con le immagini? ti senti un bulimico, le usi solo come travestimento per le tue idee, non ti piacciono ma non puoi farne a meno?
Sono un malato delle immagini e dei suoni. Sono i due elementi che stimolano il mio cervello: suono e immagine visiva. Il suono perché anche senza immagini la tua mente naviga, viaggia… viceversa un’immagine puoi ricondurti a un suono ben preciso. Dalla curiosità nasce l’idea creativa. Non ne posso fare a meno.
Mi pare di aver capito che abiti in America. Come ci sei arrivato? Perché sei là? Come si vive in iu es ei? E, soprattutto: dovremmo venire anche noi?
Purtroppo adesso mi sono impantanato qui a roma, spero di rimettermi al più presto on the road.
Sono venuto a conoscenza del tuo lavoro attraverso la serie fotografica Still got love for It. Ti va di parlarne? Che cosa ti ha spinto a quel lavoro? In che misura quel titolo e quelle foto parlano per te?
Il progetto nasce nel 2010, ma ho scattato le foto solo nel 2012. Facevo il cameriere in una pizzeria proprio lì a Brooklyn. Mi facevo 1h40 di metro andata e 2h ore al ritorno. Ma non me ne fregava affatto, anzi. Ho iniziato a vivermi un’altra New York; lontana dalle boutique scintillanti della 5th strada o dai locali alla moda. Italiani e italo-americani veri. Sono i bar dove prendevo un caffè, sono i ragazzi della pizzeria, il macellaio, il barbiere all’angolo della strada. Sono gli ultimi che resistono alla globalizzazione e all’invasione cinese che sta caratterizzando NY in questi ultimi anni. Sono gli ultimi che mantengono ancora un’anima italiana. Sono rimasto colpito dai loro racconti, da quante palle hanno avuto ad andarsene e a lasciare tutto. C’è una differenza tra l’emigrazione di allora e quella di questi anni. Loro sono partiti senza niente, solo andata, zero inglese, zero iphone, zero skype per parlare con la tua donna o con i tuoi genitori. Non c’era eDreams con le offerte di viaggio, il volo era una cosa che costava davvero.
Hai avvertito una qualche vicinanza con quelle persone? Quanto vi ha unito il pensiero di essere stati partoriti dalla stessa terra?
Molta. Mi sono sentito a volte più italiano dall’altra parte dell’oceano che qui in Italia. Purtroppo stiamo diventando un popolo il cui sport migliore è lamentarsi e trovare sempre scuse, senza far niente. D’altronde siamo il popolo che si è lamentato di politici pagliacci che poi ad ogni elezione stravincono. Non so se stiamo diventando più ipocriti o solo più piagnucoloni. Forse dovremmo capire che il nostro successo, il nostro riscatto dipende da noi e sta nelle nostre mani e in quello che sappiamo fare alla grande: cibo, design e moda.
Mi è capitato di essere a New York durante il Columbus Day, e di assistere alla parata. Hanno sfilato un sacco di preti cattolici, di ciccioni coi baffi e di starlette ispaniche. Tutti, attorno a me, sventolavano bandierine italiane vantando una qualche parentela con il nostro paese. In verità mi sembrava tutto piuttosto carnevalesco, una raffigurazione completamente naif e grottesca della nostra identità. Il tuo lavoro invece mi invita a pensare che c’è uno qualcosa di autenticamente italiano anche laggiù. E’ davvero così?
Assolutamente. Stiamo lontani dalla finta e imbarazzante Little Italy, dove oramai è un carnevale di gente “wannabe Italians” che vanta lontane parentele italiane o peggio ancora si atteggia da italiani.
Da quei personaggi da sfilata carnevalesca ho preferito spostare il focus sulle vere anime italiane. Quelli della pasta fatta in casa e del basilico sul terrazzo, quelli del …sushi ? “dallo al gatto”.
Recentemente ho letto una frase di Francesco Clemente che, ricordando il suo periodo a Roma, afferma: “Io ho visto Roma come porta dell’Oriente…Boetti, Ontani e io eravamo a Roma perché non volevamo essere altrove. Cercavamo un non luogo”. Mi chiedo quanto la scelta di andare a vivere in America sia definibile in questo senso, e quanto questo ritrovarsi in un non luogo possa stimolare la propria creatività.
Bella domanda. Ho imparato a conoscermi. Devo vivere nel caos. Non riesco a vivere e programmarmi il tutto con progetti già definiti nel tempo. Forse un non luogo o un luogo di stallo è fondamentale per stimolare la propria creatività. Se pensi che starai in quel luogo a vita non sarai mai stimolato a dare il massimo, consapevole di avere altro tempo a disposizione e di poterti giocare un’altra fiche… se pensi, invece, che ogni singola situazione o singolo luogo serve per la tua crescita, fidati vai sempre in all in, te giochi tutto. Un non luogo è fondamentale per perdersi e ritrovarsi, e in questo New York è inimitabile. Purtroppo mi sono impantanato qui a roma da un bel pezzo ormai, spero di rimettermi presto sulla strada giusta.
A che cosa (o, presumo, a che cose) stai lavorando per il futuro?
Tante e troppe contemporaneamente. Due videoclip con la WrongWay Pictures (siamo in tre: io, Frank Jerky e Vittorio Guidotti), un altro progetto fotografico… spero solo di portarne a compimento almeno la metà senza infartare prima.
Quanta ‘street’ c’è nel lavoro che fai? Che cosa rappresenta l’inclinazione street per te?
Quasi la totalità. Voglio immergermi nelle situazioni, solo così puoi vederle da un punto di vista più obiettivo. Devi essere dentro la scena. Troppo facile fotografare o sbirciare da lontano con un teleobiettivo. Saper cogliere la persona giusta al momento giusto, senza tralasciare i rischi che possono esserci. La fotografia impersonale studiata a tavolino, il sorriso forzato davanti l’obiettivo, il trucco, lo styling, il 3, 2, 1 cheeeese… bhè tutto questo non mi interessa. Sempre affascinato da Artisti veri come Jamel Shabazz o Bruce Davidson per tirarne fuori alcuni. Di Artisti con la A maiuscola ce ne sono e ce ne sono stati ben pochi. Io faccio solo quello che mi piace fare, cercando di arrivare a fine mese. Grazie.
Per info sul lavoro di Stefano: