Jupiterfab, murales come specchio dell’anima
Sappiamo che a noi di ziguline sta molto a cuore l’arte soprattutto quando non si insinua nei circuiti mainstream bensì nei meandri dell’underground.
Oggi, a umile servizio dei lettori, presento un artista visuale italiano, Fabrizio Bianchini aka Jupiterfab che annovera numerosi progetti di arte urbana, in differenti contesti culturali e geografici (Canada, Togo, Spagna, Olanda) uniti dalla medesima preoccupazione artistica: la descrizione dell’essere umano nella sua complessità e bellezza.
Ciao Fabrizio, hai vissuto in Italia, adesso vivi a Barcellona, nel tuo sito internet leggo che hai vissuto a Toronto, quale ha inciso di più sulla tua formazione artistica e perché?
Ciao Salvatore credo che ogni paese così come ogni contesto e progetto mi abbia aiutato e mi aiuterà a crescere maggiormente come persona e come artista perché tutto ciò che è diverso e ricco di umanità stimola la nostra sete di conoscenza e accresce la nostra esperienza.
In generale direi che Rotterdam è stata molto importante per accrescere la consapevolezza che sono un artista professionista, per conoscere altri tipi di arte ed artisti che vivono come me e per capire che essere artista non è un difetto e non significa essere un bohémien come spesso si pensa nell’area mediterranea. Toronto è stata altresì importante perché ho potuto avere una visione più ampia delle cose, capire l’importanza dell’antropologia nel mio lavoro e qui ho imparato che collaborare con persone di altri settori è molto importante e ti accresce moltissimo come persona e come artista.
Parliamo di alcuni dei tuoi tanti progetti artistici. “From Black and White to Colour”, dove rappresenti gruppi di persone nel loro vissuto quotidiano in un contesto urbano, mi fa pensare che questa ricerca della rappresentazione dell’essere umano nel suo vivere quotidiano sia un po’ il liet motiv generale dei tuoi lavori in cui cerchi di dire che può essere talvolta precario, stressante, frenetico. Quali sono le scenografie urbane a cui ti sei rifatto?
In questo progetto che porto avanti da ormai 7 anni cerco sempre di rubare momenti normali di vita urbana a gruppi di persone, scene che ci circondano quotidianamente, le immortalo con la mia macchina fotografica in modo abbastanza casuale e poi rivedo tutto in studio e quando trovo qualcosa che attrae la mia attenzione (movimento, sguardo…) comincio a lavorare al bozzetto.
L’idea è quella di rappresentare ciò che c’è dietro la maschera di ognuno di noi, uno stato spesso di malessere e di solitudine seppur viviamo in spazi demograficamente ad altissima densità, voglio ritrarre una scena normale e mostrare le preoccupazioni e la sete di comunicazione che ci circonda.
Viviamo in un sistema che corre e ci fa costantemente correre, lasciando poco spazio a soffermarci su quello e chi ci circonda, con la tecnologia che ci aiuta a viaggiare e comunicare facilmente in tutto il mondo ma che ci allontana da chi ci sta accanto e con il senso di edonismo ed individualità che ci accecano e ci rendono avidi ed egoisti.
Ritraggo gente che cammina per strada, persone nella metro o altri che parlano tra di loro sempre in contesti urbani e li dipingo giocando con il colore con l’ambiente urbano che il più delle volte fa da sfondo per rappresentare questo stato di iper-realità in cui viviamo, così reale da non esserlo, e per far risaltare ciò che è vivo, ciò che si muove e ha sentimenti ed emozioni.
Passiamo al progetto “600 Faces”, realizzato alla fine del 2013 in Togo. In questo caso hai lavorato in collaborazione con Ange, l’organizzazione no profit che si pre-occupa di dare supporto concreto (vitto e alloggio), educativo e sanitario a 600 bambini che vivevano per strada. Attraverso i ritratti dei bambini stessi hai cercato di rappresentare il processo di crescita del sentimento di gruppo nel tempo. Ci racconti qualcosa di più sul progetto? I bambini come hanno reagito nel vedersi rappresentati in grandi pareti?
Sì Ange è la più grande ONG del Togo e il suo obiettivo è di salvare bambini da una vita di furti e stenti per strada dandogli la possibilità di avere un lavoro e un’educazione e quindi un futuro migliore.
Il progetto artistico fa parte del mio progetto principale in tema di arte pubblica e istituzionale. Ogni anno l’obiettivo è contattare una comunità nel mondo (Onlus, quartieri, associazioni, città, paesi rurale…) poter vivere con loro per un periodo da uno a tre mesi, conoscere le persone, il territorio ed infine, rappresentare l’identità umana e l’unicità della comunità stessa attraverso un murales o più di uno nel loro territorio accompagnato da un documentario che serve invece a far conoscere quella comunità fuori.
A Lomé è stata una esperienza incredibile, è stata dura ma mi ha arricchito molto nel cuore e nella testa. Mi sono scontrato con realtà, culture e modi di pensare diversi, con la povertà “vera”, ho vissuto nelle stesse condizioni di queste persone, toccando con mano una forte corruzione fino a ricevere vere e proprie minacce di morte per aver dipinto facce giganti di alcuni bambini giusto di fronte a una moschea. Infatti, per la religione mussulmana non è possibile pregare in presenza di immagini nello spazio di preghiera… e qualcuno di notte ha agito per scoraggiarmi danneggiando gli occhi dei bambini ritratti e lasciandomi un messaggio di minacce.
Lì ho avuto la conferma che quello che stavo facendo era giusto perché i giovani del centro, la gente del quartiere e successivamente anche la stessa comunità mussulmana e il suo imam mi hanno appoggiato ed aiutato a superare l’ostacolo ed a trovare una soluzione.
I bambini di questo centro, giovani dai 2 ai 20 anni (Ange li raccoglie quando ancora sono piccoli e li accompagna finché sono giovani adulti) sono il fattore che più mi ha dato ed arricchito. In fretta hanno capito quello che stavo facendo per loro, hanno capito che non ero uno dei tanti volontari che vanno e vengono, ed è stato difficile selezionare i visi da dipingere perché in tanti volevano comparire.
Ora arriva la seconda parte del progetto, quello di finire il documentario a cui sto lavorando e di rappresentarlo con foto e con alcuni visi di bambini da dipingere in varie esposizioni in Europa.
Il tuo ultimo progetto, “Now-Poble-Nou”. riguarda il quartiere Poblenou di Barcellona. In questo caso cerchi di rappresentare il processo di recupero della memoria storica e di cambiamento di un quartiere culturalmente e socialmente in fermento attraverso le storie delle persone in cui ci vivono. Si parte da interviste dove entri in contatto con l’essere umano e la sua storia di vita in relazione al quartiere e dopo arrivano dei grandi murales. Tutto condito da video-interviste e foto (che verranno presentate in una mostra il prossimo settembre), che poi confluiranno in un documentario. Come va il progetto? Come scegli le persone da ritrarre nei murales?
Now-Poble-Nou fa sempre parte del mio progetto sulle comunità, in questo caso più approfondito perché vivo in questo quartiere e quindi ho potuto impostare un lavoro più a lungo termine.
Il progetto va benissimo, è un anno che lo sto portando avanti. Ho iniziato da solo, poi con un paio di amici, poi con un piccolo gruppo di professionisti del quartiere ed ora siamo una ventina a lavorarci… tra cui antropologi, fotografi, video editor, cameraman, scrittori e critici e la cosa più interessante probabilmente è che tutti lavoriamo gratis.
Gran parte del quartiere ne parla e ci conosce, a settembre esporremo nella sala d’arte contemporanea Can Felipa, uno spazio molto importante, ubicato nel quartiere con di più di 500 mq di spazio espositivo. Il comune ed altre istituzioni locali ci stanno appoggiando tra varie peripezie, burocrazia che ci mette il bastone tra le ruote. Ogni settimana intervistiamo persone diverse e sempre più spesso altri ci chiedono di essere intervistati o ci consigliano amici e conoscenti. La gente, senza praticamente conoscerci, ci concede tempo e ci apre le porte della propria, mostrandoci foto che raccontano una vita o i propri lavori e questo non smette di sorprendermi.
L’idea è rappresentare la transizione e l’identità umana di un quartiere raccontando l’unicità delle persone che lo vivono e rappresentando i loro visi in murales che sottolineino il loro orgoglio e le loro emozioni.
Poblenou è stato per molti anni il quartiere industriale di Barcellona, ha subito una forte crisi e decadimento dopo la caduta di Franco e un abbellimento urbanistico in occasione dei giochi olimpici di Barcellona nel ’92. Il comune ha cercato poi di trasformarlo nel centro tecnologico della città e in un contenitore di nuovi hotel, non guardando esattamente gli interessi degli abitanti. La crisi degli ultimi anni ha guastato tutti i piani ed ora è una zona dai grandi contrasti a livello urbanistico (grattacieli e hotel di lusso mischiati con edifici distrutti o diroccati e casette che hanno più di 100 anni) ma con una forte ricchezza a livello umano. Qui vivono varie tipologie di persone, in particolare persone anziane, che hanno vissuto qui per gran parte della loro vita ed hanno lavorato nelle industrie della zona, e molti giovani artisti e professionisti attratti da un’atmosfera unica tra industria e paesino di mare e spazi grandi dove vivere e lavorare, con tantissime associazioni senza animo di lucro, organizzazioni di quartiere, orti pubblici.
Tutto questo purtroppo è destinato a cambiare in fretta, frutto di una gentrificazione galoppante che attrae sempre più hipster e negozi indirizzati al turista.
Nel nostro lavoro cerchiamo di rappresentare questa complessità e ricchezza umana. Il modo in cui selezioniamo gli intervistati o loro selezionano noi, nella maggior parte dei casi diventa un processo naturale e di interesse reciproco.
Per quanto riguarda i murales, l’idea era quella di rappresentare tutte o quasi le persone che hanno partecipato alle interviste e abbiano accettato di essere ritratte. Fisicamente e per una questione di permessi la cosa non è possibile e quindi seleziono i soggetti utilizzando la ricchezza interiore che mi hanno trasmesso durante e dopo l’intervista e la loro forza espressiva, cercando sempre di trovare un equilibrio tra anziani e giovani.
Un grande ringraziamento a Jupiterfab che ci ha dato la possibilità di conoscere il suo lavoro, bello e interessante.