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La bellissima crudeltà di Mauro Covacich

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La Sposa di Mauro Covacich è un libro orribile.

La raccolta di diciassette racconti ti stende con colpi ben assestati, lasciandoti a terra, inerme e sconfitto. Le storie non hanno niente in comune tra loro, se non la penna che le scrive e in tutte si percepisce distintamente qual è lo stile che conduce il gioco, la lingua che parla.

 

 

Damiana, ad esempio, lo sapeva che non avrebbe dovuto trasgredire agli ordini e invece ha scelto di morire consapevolmente, da eroina, da ribelle, da chi ci crede che le cose possano cambiare. E Carla? Carla l’aveva capito da un pezzo che lui non l’avrebbe richiamata, ma accampa mille scuse, trova gli alibi più credibili, vestendosi da avvocato difensore di una causa che non esiste, pur di non fare i conti con la realtà. Lo sa benissimo anche lei, che se un uomo ti vuole ti prende, ma il merito di Covacich non sta nel mettere in scena la svolta, bensì la fragilità, esorcizzandola drammaticamente. Come se parlasse a nome di milioni di donne così fragili e bisognose d’affetto da credere che chi non ti ha voluto si sveglierà prima o poi dal torpore. Peccato che il più delle volte al torpore seguano le fughe. E Covacich non ce lo risparmia mica il dolore, lo scoramento e la disperata attesa di un cenno, di un segnale, che non arriva e che non arriverà mai.

In “doppia panna”, invece, sembra che sia lo stesso scrittore a scendere in piazza, mettendosi a nudo, facendosi portavoce di un’intera generazione sterile e dolente di ragazzi ormai adulti e delle strade imboccate, delle rinunce e del divario che intercorre tra loro e quelle coppie con figli che popolano le pizzerie al sabato. Se Eva è depressa, Covacich non scrive che è depressa, ma le fa compiere azioni automatiche, prive di entusiasmo eppure da innamorata testarda, che per altre cento volte compirà le stesse scelte, per quell’attaccamento morboso alla vita e alla voglia che le emozioni trovino la più calzante corrispondenza. E se quella figurina bianca attende sul ciglio della strada, in abito da sposa, è solo perché ha deciso di sposarsela quell’esistenza infelice, ma celebrando a modo suo quel rito.

 

 

La lingua di Covavich è affilata e il suo punto di vista spietato sembra non lasciar spazio alla salvezza. Tuttavia, quello che sembra dirci ne “La Sposa” è semplice. Se il tuo incubo peggiore è incontrare degli squali in mare aperto, va’ a nuotare con loro, ma non precluderti né l’eccitazione né la paura che ne derivano. Perché è solo così che si vive, guardandoli in faccia quegli incubi che popolano le tue notti, scendendo nelle profondità di emozioni che devono poter scorrere senza freno, immergendosi nei vuoti, nelle assenze, nei rifiuti della vita, senza mai e poi mai restare sulla soglia delle cose. Il lieto fine non è ammesso in nessun caso, eppure è per quel fatuo calore dell’animo, che vale la pena osare. Covacich non ci nasconde come andrà a finire, ce lo dice chiaramente che il protagonista non si salverà. Chi lo legge, al riparo da ogni minaccia, cerca di non farsele entrare dentro le storie che legge, ma è impossibile. Chi legge “La Sposa” di Covacich pensa di essere in salvo, perché estraneo agli eventi, ma si sbaglia. Alla fine di ogni storia, quando alla rabbia segue lo sgomento, il lettore si sente sporco, come se avesse un segreto da nascondere che lo stesso Covacich gli ha sussurrato a bassa voce. Un segreto inconfessabile, difficile da ammettere, scomodo, fastidioso, ma soprattutto indecente. Il segreto, quello, il lettore lo conosce fin troppo bene, perché anche lui come tutti i protagonisti dello scrittore triestino avrebbe agito allo stesso identico modo. La grandezza di Covacich è tutta qui: ogni evento narrato spiazza per crudezza, per assurdità, ma accusa apertamente, perché quel nome e quel volto potresti essere tu e quella storia potrebbe capitare a te. È come se Covacich, attraverso la sua penna, cercasse di svegliarci dal torpore da cronaca televisiva, da notizie di omicidi, rapine, guerre e dolori. Abituati come siamo a fare di situazioni lontane un brusio di sottofondo, lo scrittore ci coglie di sorpresa, senza avvisare. Ci fa entrare nella testa, nel corpo e nel cuore dei personaggi e quello che vediamo è davvero orribile.

Giuliana Pizzi

scritto da

Questo è il suo articolo n°28

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