La satira di una volta, intervista a Riccardo Mannelli
Molto spesso si parla di via del Pigneto come uno dei centri della movida romana. E’ vero, ma questo rischia di alterare la sua immagine. Il Pigneto è un quartiere che resta ancorato, esteticamente e socialmente, a quegli scenari che Pasolini raccontava in Accattone. Case diroccate, strade sporche, un mare di disperazione umana e risse e droga che convivono con le anime più delicate e creative della città eterna. Un’armonia, questa, che credo sia il vero cuore pulsante di una Roma molto diversa da quella, morta 1000 anni fa, delle guide turistiche e dei palazzi clericali. Al Pigneto ha il suo studi Riccardo Mannelli, uno che fa illustrazioni e disegni e satira da quarant’anni e che sul curriculum ha, per dire, la fondazione de Il Male, le collaborazioni con Linus, Alter Linus, La Repubblica, Il Manifesto, La Stampa, Il Messaggero e, attualmente, l’essere il vignettista di prima pagina de Il Fatto Quotidiano. Uno che, di quell’armonia tra bruttezza, delicatezza, decadenza e sensibilità, ne ha fatto il segno più riconoscibile della sua arte. L’abbiamo intervistato.
Sei stato uno dei fondatori de Il Male, in un periodo in cui il fumetto era qualcosa di sovversivo.
Innanzitutto, diciamo che il mio non è “fumetto”, ma satira. Diciamo che noi facevamo le cose che ci piaceva fare, ciò che sentivamo ci divertiva di più: tutto questo poi rischiava di essere interpretato come sovversivo o comunque, con una certa pericolosità culturale, perché si inseriva in un determinato contesto. Non si era abituati a vedere certe cose: come la copertina del primo numero dei Quaderni del Sale – che si fece a Milano e venne prima de Il Male, in cui c’era un disegno di Pino Zac dedicato al processo di Catanzaro, in cui Andreotti inculava la Giustizia. Quel tipo di immagine non si era mai vista, successe il finimondo. Fu come un’illuminazione per noi: era qualcosa che si poteva fare. Nel giro di due settimane diventammo tutti matti, almeno chi non accettava quel tipo di società.
Secondo lei è diventato un Paese più bigotto?
Assolutamente sì. Lo è già da almeno ventanni.
Coincide con il Berlusconismo?
Ma Berlusconi non c’entra niente: non è la causa, è solo un furbissimo coglione che ha semplicemente pettinato il pelo a quella che è l’anima italiana. Il problema sono gli italiani, non i loro politici e l’hanno dimostrato le ultimissime elezioni. La classe dirigente fa schifo, ma è il meglio del meglio del nostro Paese. Additare Berlusconi come una causa è una complicità, è trovare un facile capro espiatorio. La gente non paga le tasse non perché ci sia o non ci sia Berlusconi, ma non le vuol pagare. Si costruisce una villetta abusiva non perché c’è Berlusconi. La sinistra dice: metteremo le tasse. Berlusconi dice: noi le leveremo. Indovina chi vince? Rispetto al periodo in cui ci siamo formati noi, un periodo in cui si pensava che da lì in poi sarebbe stato tutto migliore, è uno sfracello. Sono tornate dalle fogne cose che si pensavano defunte.
Tipo?
Pensa soltanto al mondo dell’arte e della comunicazione. Solo in questo campo il gusto e la preparazione delle persone sia decaduta. Negli anni ’70 ci si era abituati a vedere cose strepitose: Bacon lo conoscevano tutti, l’arte era tornata in auge con la prima posteristica dei primi anni ’70, in cui ai posters dei Beatles erano affiancati quelli di Egon Schiele. Adesso non si sa nemmeno di che si parla, sia per quanto riguarda i Beatles che Schiele.
In che modo la satira, il disegno, ciò che lei fa può essere vista come una battaglia contro tutto questo? Cosa la spinge a fare ciò che fa?
Il divertimento, prima di tutto. L’arte ha molti termini in comune con il gioco: play, enjoy, jouer. Alla base di tutto c’è il gioco. Sennò chi te lo fa fare, di star qua a fare le battaglie. Le battaglie vengono quando tutto questo diventa una professione: in quel momento se hai una coscienza di un certo tipo ti metti di traverso e lì cominciano i guai. Ma non è per il tipo di lavoro che fai: è per come ti inserisci in una società. Lì puoi andare incontro ad aut aut e a ostracismi vari. Ti possono tenere fuori dal circuito, dalla comunicazione: devi verificare innanzitutto se sei a livello 0 puoi sopravvivere, se puoi tirare avanti pure se non sei pagato. Se sai stare al livello 0, tutto ciò che viene dopo è grasso che cola. Io, a quasi 60 anni, so che posso essere buttato fuori da casa da un momento all’altro. Alcuni miei amici si sono arricchiti, io no. Ma io non mi diverto arricchendomi.
Sta parlando di censure, di esilii dai mezzi di comunicazione importanti?
Le censure sono falsi problemi di cui la gente di riempie la bocca per farsi pubblicità. La vera censura è la cialtroneria: non gliene frega un cazzo a nessuno di quello che dici. Magari fossi a rischio censura, vorrebbe dire che sarei pericoloso, che qualcuno mi avrebbe preso in considerazione.
Quasi che per essere censurato bisogna essersi già piegati prima.
Assolutamente. Si deve far parte del gioco. Sennò non esisti, non sei contemplato. Io adesso lo sono, ho una qualche attenzione, ma ho passato anni nell’ombra. Tutto questo nonostante io non abbia comunque mai fatto il fanzinaro, ma sia sempre stato piuttosto mainstream. Ho iniziato coi soldi di DeBenedetti e dell’Espresso. Ma io con quei soldi non ci facevo le case, li investivo nelle cose che reputavo importanti ed invisibili.
Come si inserisce, in un discorso del genere, il lavorare su commissione?
Il discorso della committenza è quello che ti fa più crescere, ed i ragazzi non lo vogliono capire. Tutti vogliono fare l’artista, fare come si vuole. Avere degli steccati è una sfida bellissima, è da là che vengono le idee vere, le spinte. La libertà assoluta porta ad arenarsi, prima o poi. Sai ciò che ho scoperto di saper fare con i lavori su commissione? Le committenze sono le sfide più interessanti. Michelangelo si incazzava dalla mattina alla sera, ma senza le committenze non avremmo la Cappella Sistina.
I tuoi disegni: le cose che fai, il tuo stile, mi ha sempre inspirato qualcosa di decadente. Un qualcosa di simile a quello che faceva Schiele, che hai citato prima. I soggetti, le scelte di un’umanità imperfetta perché reale mi rimandano a qualcosa del genere.
Il discorso della decadenza, che è una parola molto sdrucciola: io disegno in un certo modo naturalmente, sono autodidatta. Io sapevo disegnare così, mi ci ha portato il disegno a farmi capire che stavo facendo delle cose di un certo tipo. Ho imparato a seguire l’istinto, a seguire ciò che mi veniva fuori dalle mani. ll disegno, il gesto, è venuto prima di tutto. Mi veniva così, e tutti a dire machecazz’è o machemerdafai, ma io sentivo quelle cose: un culo è bello perché è un culo, se io faccio una grafica di un culo faccio un’altra cosa. Hai mai visto un culo senza cellulite? A me, oltretutto, piace quello: mi piace l’umano, sono curioso dell’umano, e faccio quello. Non mi metto a fare estetismi. E’ un discorso naturale: uno sguardo personalissimo, arbitrario, magari presuntuoso, invasivo, però è mio. Io vedo questo, e sono onesto nel dirlo. E questo è ciò che può rendere interessante, coinvolgente, apprezzabile riconoscibile il mio lavoro. Vedi, anche per quanto riguarda le vignette del Fatto Quotidiano, io non parto mai dalla battuta. Mi vengono dopo. Io devo disegnare.
Una domanda sulla serie di disegni a proposito del bondage..
Non ne so nulla. Non hai idea di che rottura di palle che è dover disegnare tutte quelle corde. Io ho spesso amato mischiare, anche nei lavori più satirici, la politica con cose come queste, che nessuno voleva vedere e che pure erano di larghissimo consumo. Come il porno su internet in questi ultimi anni: nessuno ne parla, Facebook censura i miei quadri e vengo cacciato e poi vedi cose anche lì che.. Ma questa non è colpa di Facebook, è colpa della gente. Le antenne le affini seguendo ciò che, ipocritamente, tutti fanno finta che non esista. Tanti pensano che io sia un esperto e un praticante di pratiche sadomaso, ma allora mi dovrebbe piacere Andreotti. Ci sono tanti modi di interessarsi alle cose: secondo me il BDSM è noiosissimo, quasi una violenza camuffata. Detto questo, è comunque umanità, ed essendo umanità mi deve interessare per forza, non posso far finta di non vederla. Ho usato quelle pratiche come delle metafore: il mio è sempre stato un lavoro sulle rovine dell’occidente, rovine di un contesto culturale e umano. Ci sono corsi e ricorsi, giochi molto solipsistici e onanistici. C’è addirittura una palestra onanistica, in cui ognuno impara a contorcersi e a fare da sé in modi molto vari. In questo senso, quelle pratiche sono piuttosto oneste, non nascondono niente e vanno al di là qualsiasi ipocrisia. E poi, una saponetta o un sofficino è molto più merdosa e ipocrita e culturalmente pericolosa di tutta questa roba.
Riccardo Manelli | Wikipedia – Bio