L’antimateria di Francesco Viscuso
“Per il più folle e insieme più semplice racconto che mi accingo a scrivere, non mi aspetto né sollecito né credito alcuno. Sarei matto ad aspettarmelo in un caso in cui i miei stessi sensi respingono, quanto hanno direttamente sperimentato”. Edgar Allan Poe così ci redarguiva in uno dei suoi racconti, Il Gatto Nero, così io voglio allertare i lettori, circa l’antimateria creata dall’allucinatorio Francesco Viscuso.
Chi o meglio cosa è costui? Potrebbe essere l’Io narrante del sottosuolo dostoevskiano, un sopravvissuto dell’Inferno strindberghiano, un delirante racconto del pittore Strauch dal romanzo Gelo di Thomas Bernhard. La loro Apoteosi. Un tentato sunto potrebbe essere: chi ha saputo piegare la messa in scena di una lucida follia alle “leggi” della fotografia.
La disturbante contemplazione di queste immagini, esposte fino al 22 febbraio 2014 presso la AusGalerie di Latina per la mostra Haunted Rooms, ha permesso all’immaginazione, o per dirlo alla William Blake, alle porte della percezione, di udire la voce di Peter Murphy nella sua cadenzata ripetizione della parola “undead”, ascoltata nel brano Bela Lugosi’s Dead.
La tecnica utilizzata da questo fotografo, rimanda non solo musicalmente al gotico dei Bauhaus, ma anche al cinema, nello specifico alle prime pellicole dell’espressionismo tedesco, riproponendo la stessa inquietudine degli occhi di Conrad Veidt nella sua personificazione del sonnambulo Cesare, nel capolavoro del cinema muto “Il gabinetto del Dottor Caligari”.
I suoi scatti catturano l’anima, celata, e forse terribilmente reale del soggetto che si sottopone alla sua visionaria capacità, la imprigiona, questa si agita, il corpo che la possiede diventa sfuocato, avvolto da un processo di non riuscita metempsicosi, (ovvero la trasmigrazione di un’anima da un corpo all’altro), emanando una sensazione di profondo tormento; altri ancora, propongono soggetti perfettamente a loro agio nel loro stato di “Insane”, un sorriso alla Joker si dipinge sulle loro labbra.
Simili a dagherrotipi, le foto svelano un insieme di corpi, teschi, scarnificazione, ghigni, metamorfosi a metà tra l’umano e l’animale, con la consapevolezza di avere dato un volto alla lacerazione interiore che accomuna molti esseri umani.
Michele Mari ha scritto: “Verrà la morte e avrà i miei occhi, ma dentro ci troverà i tuoi”. Credo che nelle fotografia di Francesco Viscuso si possa ritrovare la necessaria “innaturalità” che aleggia in ognuno di noi.
Di solito nelle interviste ci sono quelle domande rituali e un po’ “marzulliane”, progetti, influenze, io vorrei fare una cosa, chiederti quale è la domanda che speri qualcuno ti faccia, ma nessuno ti propone?
Si domanda per ottenere informazioni. Per soddisfare una curiosità. Se domandassi a me stesso di confidarmi qualcosa sarei vittima di autoreferenzialità sconsiderata. Conoscerei la risposta prima ancora di averla ottenuta e di conseguenza non avrei la possibilità di appagare realmente nessun desiderio. Potrei dirottare il senso di una tale operazione paradossale in ‘cosa voglio che la gente sappia ancora di me?’. In verità le risposte alle mie domande interiori le condivido attraverso tutto il mio lavoro. E di fatto ogni mio progetto è anche un tale dialogo a più voci, un intreccio di interrogazioni e ipotesi di adattamento di Logos e Imago all’incondizionato, all’interno del quale ho il timore di dire forse fin troppo. Ma è un timore piacevole. Quando chiesero a Jim Morrison quale fosse la sua più grande paura lui rispose “la mia più grande paura è che la gente mi veda come io vedo la gente”. Era una bella risposta ad una domanda piuttosto marzulliana.
Ho letto che sei un fan di Tarkosky, anche io, ti cito uno dei suoi film che più mi ha colpito “Stalker”, un viaggio nella “zona”, due personaggi in antitesi, lo scrittore, il professore e l’esaudirsi di un desiderio. Io mi sono sempre chiesta e ti domando, saresti entrato nella stanza oppure no, e cosa avresti chiesto?
Uno dei personaggi decide di non entrare nella stanza perché non vuole vomitare in faccia a nessuno lo schifo che ha dentro di sé. Preferisce crepare alcolizzato nella sua puzzolente stamberga, ma tranquillo e in silenzio. Lo stesso Stalker non è mai entrato nella stanza, preferisce non sapere. Se c’è qualcosa che davvero desidero è avere la possibilità di vomitare in faccia a chiunque lo schifo che ho dentro. “Più profonde ferite che a me, inflisse a te il Tacere”, scriveva Paul Celan. Il non volersi dire è un rifugio per codardi. Non mi riguarda. Sarei entrato in quella stanza. Avrei espresso un desiderio qualunque, perché in ogni caso la stanza avrebbe esaudito il desiderio inconscio del mio inconscio, ed io avrei avuto finalmente la possibilità di mettermi di fronte a me stesso, nudo. Come per il Porcospino (detta così fa ridere, ma chi ha visto il film sa di cosa parlo), una tale rivelazione avrebbe potuto indurmi a commettere suicidio, e in fondo preferirei morire nella consapevolezza che crepare nell’ignoranza.
Carver in suo racconto, Cattedrale, cerca di spiegare cosa sia questo tipo di architettura ad un cieco, mi descriveresti il tuo “lavoro” come se dovessi spiegarlo ad una persona priva di un senso?
“…cercano di prevedere là dove non vedono, non vedono più o non vedono ancora. Lo spazio dei ciechi coniuga sempre questi tre tempi di memoria”, scriveva Derrida in Memorie di cieco ed io aggiungo che una tale coniugazione mnestica avviene nell’orizzonte di rovine che sono all’origine della possibilità stessa della ricostruzione del visibile: segni che si fanno avanti. “Rovina è l’autoritratto, il viso fissato come memoria di sé, ciò che resta o ritorna come uno spettro non appena al primo sguardo su di sé una raffigurazione si eclissa”, continuerei citando ancora una volta Derrida. Tu o il tuo Altro bendato probabilmente non capireste nulla di ciò che oggettivamente realizzo, ma iniziereste a farvi un’idea del tipo di percorso che ho intrapreso. Il mio lavoro è soprattutto la ricerca della luce della mente, quando essa è terribilmente sconvolta. Il mio autoritratto impossibile da vedere se non ad occhi chiusi.
Ho letto del tuo amore per Duchamp. Io ho una sua biografia, non letta. Immagina di dover raccontare a me, che sono come un foglio bianco, cosa sia la sua arte per te, e come la tua predilezione sia caduta in maniera particolare su lui e non su altri?
Ponendo il problema della riconoscibilità dell’opera d’arte nel XX secolo, Duchamp disse: “Si possono fare opere che non siano d’arte?”. Era ironico, ma quando in una sua lettera a Mary Ann Adler leggiamo: “…stavo cercando una qualche «raison d’être», altra cosa da un’esperienza visuale”, ci rendiamo conto che ciò che davvero cercava non era l’oggetto-immagine, ma quella che Freud avrebbe chiamato ‘la questione del proprio vero’. La ragion d’essere che lo attraversava si incontrava in tutti quegli oggetti che in un particolare momento e in una determinata condizione psichica assumevano per lui la funzione di un rendez-vous, un appuntamento. Sylvia Plath ha chiamato “Celestial Burning” quell’ardore celestiale che inaugura il processo di partecipazione mistica con un segno che d’improvviso cessa di essere oggetto e diviene soggetto e parla attraverso il cosiddetto ‘artista’ che altro non è se non il medium, il traduttore di tale enigmatico movimento, di questo occulto passaggio. Duchamp era dunque consapevole, come dovrebbe essere consapevole ogni ‘inventore’, di lavorare alla ricerca della sua raison d’être attraverso il farsi opera dell’opera e non all’opera stessa. Qui la lucidità del suo discorso, qui la mia predilezione per la sua filosofia.
Siccome nel rituale da fine intervista c’è sempre il “dove ti potremo vedere al lavoro prossimamente”. Io ti farei una domanda da cappellaio matto, dove NON ti potremo trovare?
Probabilmente non mi troverete in Parlamento, non mi troverete ospite della De Filippi, non mi troverete a Casa Pound e non mi troverete in Siberia. Perché detesto e combatto i ricatti sociali della corrotta classe dirigente italiana, il programmatico istupidimento delle masse, il reato di apologia del fascismo e il freddo del Nord. Potrei sempre trasformarmi in un nobile guerriero e lasciare spazio alla mia sete di giustizia nutrita dall’ira funesta, eppure credo nella pace e nella forza della non violenza, per cui le suddette improbabili presenze restano inalterate. L’ovunque, in ogni caso, è un luogo che mi incuriosisce profondamente e spero di poter essere nel maggior numero di posti possibili, fino a che la vita deciderà di ospitarmi.
Testi di La Seconda Signora Panofsky. Foto di Ettore Maragoni.
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