Le alchimie visive di DEM
Dietro lo pseudonimo DEM si celano molteplici identità artistiche e labirinti simbolici che trovano nella natura e nel subconscio umano, quello legato alla mitologia e all’ancestralità, i principi propulsori e al contempo i loro responsi. Street artist, illustratore, creatore di istallazioni e regista: per DEM l’uso dei mezzi espressivi è un allenamento continuo e spontaneo, la ricerca del linguaggio che entri in una simbiosi più immediata con l’universo naturale, quello da cui ogni essere umano è generato, da cui il contemporaneo ci allontana ma a cui sensi ed istinto ci riaccompagnano.
Guardando i lavori di DEM avvertirete la sensazione di un dejavu. Probabilmente avrete visto il suo gigante Crucistrada di foglie e rami nel film Il paese dei Coppoloni con Vinicio Capossela, o confonderete uno dei suoi mostri con l’illustrazione di uno dei vostri libri d’infanzia, oppure semplicemente vi accorgerete che l’alfabeto visivo di DEM combacia con gli elementi che compongono ciò che è oltre le elaborazioni del razionale e i processi artificiali.
Come nasce un’opera di DEM?
Non ho un vero e proprio modus operandi. Quello che faccio sempre è cercare di vivere nel modo più naturale possibile i luoghi in cui andrò a realizzare un’opera, questo parlando di “arte pubblica” ovvero di opere fatte per tutti ed esposte in spazi aperti.
Cerco di essere una spugna, di prendere tutto quello che c’è intorno, di studiare i luoghi e gli elementi che li compongono, le notizie relative alle persone che li hanno vissuti nel tempo e in qualche modo di filtrare il tutto a modo mio, associandolo a metafore.
Se l’istallazione che realizzerò si trova in un posto naturale faccio un sopralluogo e nel giro di un’ora trovo il punto “prescelto”, nei giorni seguenti faccio studio dei materiali reperibili in loco e capisco cosa realizzare.
Con i muri il lavoro è diverso: faccio uno studio delle architetture e cerco di passare quanto più tempo possibile con le persone del posto per assorbire come viene vissuto. Per me non ha senso andare in un posto in cui non sono stato prima con il progetto di un lavoro già pronto. Faccio da medium tra quello che la location mi racconta e quello che voglio rappresentare, a volte faccio anche degli studi storici del territorio per capire a cosa era destinato un tempo. Penso che sia importante trovare un nesso tra il presente e il passato, un collegamento con le popolazioni che abitavano i territori in tempi remoti. E’ un po’ il concetto del “genius loci”.
Quali sono le tue inquietudini preferite?
Per una vita ho sempre disegnato in modo spontaneo a ruota libera in casa mia, anche come “arte terapia” e credo che in tutti quei quaderni disegnati siano visibili le inquietudini della mia vita. Sicuramente dipendono molto dal periodo che sto vivendo. Detto ciò non ho un tema fondamentale che si ripete, a livello grafico ci sono sicuramente molte “gabbie” o dei personaggi che mi hanno accompagnato dall’inizio e continuano ad accompagnarmi, ma non credo ci siano delle cose fisse e non ho pensato di analizzarle in modo “psicologico” perché sarebbe un lavoro da psicoterapeuta. Se non avessi ansie, preoccupazioni e pensieri non avrei nulla da raccontare perché la carica espressiva deriva ovviamente da quello che si vive. Il buttare fuori qualcosa è anche un’esigenza che evita di rimanere “schiacciati” da alcune emozioni.
Le tue istallazione trovano spesso scena in boschi e paesaggi naturali un po’ selvaggi. In base a cosa scegli le tue location?
Scelgo posti in cui mi trovo a mio agio e faccio riflessioni su come gli altri riescano ad interagire con essi. Nel caso dei muri analizzo crepe, irregolarità, macchie di umido e da quelle tiro fuori delle forme. Nel caso di location naturali la posizione delle piante. La mia missione durante il processo creativo è dar vita a un qualcosa che possa appartenere ad un luogo ma riesca anche ad essere funzionale all’interazione con lo spettatore.
Nelle tue illustrazioni ci sono valanghe di simboli più o meno nascosti. Sono enigmi da risolvere o è tutto un distillato del tuo subconscio?
Quello che mi piace di più è creare una sorta di rebus: prendo degli oggetti nascosti ma più o meno riconoscibili all’interno dei miei lavori. Le persone riconoscono i simboli e li analizzano, poi ogni singolo li mette insieme in base alle sue esperienze e al suo modo di pensare e va a crearsi una sua storia con quello che vede sul muro. All’interno del muro ci saranno quindi varie “parole” che verranno usate per creare una frase o un discorso, il pubblico ha una funzione fondamentale nella lettura del rebus.
Parlando di subconscio invece già nei ’90 quando facevo graffiti ho disegnato simboli che appartengono a popoli antichi senza saperlo e senza conoscerne il significato e non so se questo derivi dal mio subconscio, forse più credibilmente dal subconscio collettivo. Tanti elementi colpiscono indipendentemente dal livello di conoscenza e cultura, proprio perché appartengono al subconscio dell’essere umano.
Dall’illustrazione alla produzione di film. Come si è evoluto in questi anni il tuo linguaggio?
Ho iniziato nei primi anni ’90 a 12 anni con i graffiti sui muri ma presto, intorno ai 19 anni, mi è sembrato un linguaggio molto autoreferenziale che veniva compreso solo da chi faceva writing. Così dalle lettere sono passato a disegnare personaggi tra il mitologico e l’animale che facevano parte del mio immaginario da sempre perché da piccolo leggevo enciclopedie sugli animali e mia mamma mi raccontava storie della mitologia babilonese o novelle di Calvino. Nello stesso periodo mi sono riavvicinato alla natura: la osservavo, raccoglievo oggetti naturali che per me potevano avere una valenza simbolica, li portavo a casa, li disegnavo e li mettevo all’interno di altri simboli. Nel giro di tre anni avevo la casa invasa da scatole di scarpe piene di questi oggetti così mi sono chiesto “se il lavoro che faccio è prendere simboli e disegnarli in x modi per esprimere dei concetti non posso fare la stessa cosa con dei veri e propri oggetti?”.
Le prime micro istallazioni e le maschere sono nate così. In seguito ho pensato che se la maschera è staccata dal corpo per me diventa un oggetto morto, quindi mi sono chiesto come fare a rendere di nuovo vivo un oggetto che è fuori dal suo contesto come un pezzo di legno che è diventato una maschera, e così sono approdato al video perché in quel modo riuscivo a far “vivere” le maschere e i miei oggetti naturali, mi serviva a comunicare al pubblico che un legame con la natura esiste e bisogna osservarla per trovarlo. Il video mi permette di immortalare la natura e comunicarla portandola in un contesto “umanoide”. Questa è l’evoluzione del mio percorso, c’è una sperimentazione di mezzi ma è sempre collegata ad una necessità espressiva.
Le tue sculture hanno fatto da scenografia ad alcune scene de “Nel paese dei Coppoloni”, lungometraggio di Stefano Obino con Vinicio Capossela. Com’è stato collaborare al progetto?
Con Vinicio mi sono trovato molto bene, il suo libro parla dell’Irpinia, nel dettaglio dell’alta Irpinia che è il posto di cui è originaria la sua famiglia, e la sua casa discografica si chiama La Cupa come il nome del percorso che collega Calitri, il paese di uno dei suoi genitori, ai campi. C’è una novella che si chiama Il Crucistrada e mi sono immaginato questo spaventapasseri che è all’incrocio delle strade. Quello che mi ha colpito dell’Irpinia è stata la potenza della natura, energie simili le ho trovate forse solo in alcuni luoghi della Sardegna.
Ho avuto la possibilità di conoscere un luogo di cui si parla molto poco e che ha tantissime risorse anche parlando di biodiversità, piante e animali. Ho avuto a che fare con tanti collaboratori, da gente che lavora per il comune ad amici di Vinicio, e credo che il valore aggiunto di quell’istallazione sia che ci hanno lavorato tante persone del posto a cui ho insegnato anche i modi per prendersene cura, per sostituire i pezzi che si deteriorano e far in modo che resti lì ancora per del tempo.
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