Le dipartite e le mancanze degli Uomini senza donne di Haruki Murakami
Che Murakami fosse un romanziere eccezionale, lo sapevamo già da un po’. Che lo sapesse anche lui, è cosa nuova e giusta. Con “Uomini senza donne” non lascia dubbio alcuno e sancisce, in maniera definitiva, la sua grandiosità nel raccontare. Sette racconti, sette differenti rimpianti, sette orizzonti diversi, un unico grande mosaico, quello degli uomini senza donne. Non necessariamente soli, men che meno perdenti. Semplicemente senza donne. Le storie che Murakami ci regala sono dei continui punti di domanda; lente rievocazioni che, come tessere di un puzzle, contribuiscono a creare quel quadro finale in cui perdersi, deriva di personalissime e inconfessabili riflessioni.
Ma cosa accade se un attore discretamente affermato si ritrova a dover assumere un autista e se la sua presenza discreta lo spinge a rievocare un passato di abbandono e sofferenza alla ricerca del senso dell’abbandono di sua moglie? E se questo autista fosse una ragazza?
E se un Samsa ragazzo si risvegliasse un giorno in una stanza angusta e dovesse trovarsi a fare i conti con un corpo umano da studiare? E se all’improvviso bussasse alla porta una ragazza di cui Samsa si innamorerà?
E se un giovane accidioso spingesse la sua compagna tra le braccia di un altro, per illudersi di avere ancora un minimo controllo sulla sua vita, prima di sparire completamente?
Siamo abituati di solito a leggere storie in cui il cavaliere errante abbandona la sua donna, alla volta del suo viaggio e, una volta terminate le peregrinazioni, si intraprende quel nostos che, lentamente e chissà quando, lo riporterà a casa, dove una donna fedele e paziente lo aspetta.
In questa raccolta riecheggia un monito incontrato tempo fa sotto un portico “Io ruoto, tu sospiri”. Sono le donne che partono. Gli uomini restano fermi ad aspettare.
Leggendo le pagine di questa raccolta si ha l’impressione nitida della consapevolezza che alberga nella penna dello scrittore giapponese. Sapiente tessitore, abile burattinaio di emozioni, Murakami nasconde qua e là piccoli riferimenti autobiografici. In Kino sono i sogni di Murakami stesso a prendere forma; ce lo ricorda l’ambientazione che sceglie, un caffè in cui si avvicendano storie oscure dai risvolti inimmaginabili.
In un’intervista rilasciata qualche settimana fa al Telegraph, lo scrittore giapponese si racconta: “(…) I figured, would let me relax, listening to my favourite music from morning till night” (http://lithub.com/haruki-murakami-the-moment-i-became-a-novelist/). E’ proprio quello che farà Kino per riallacciare i fili di una vita che sembra disfatta, aprirà un caffè e lascerà risuonare la sua musica preferita come un caldo balsamo palliativo.
Quelle che Murakami ci presenta sono le varie età dell’uomo che, come nell’enigma della sfinge, si avvicendano. C’è il giovane studente alla ricerca di un cammino da percorrere, l’uomo affermato, il divorziato, l’allegorico nascituro, il signore di mezz’età. Ci sono tutti, puntuali e, altrettanto puntuali, le mancanze e le nostalgie. Nostalgie pessoiane di quello che sarebbe potuto essere e non è stato, nostalgie per quello che era e che non è più, per quello che non sarà mai, punto.
Non risparmia nessuno, Murakami. Neppure se stesso.
Ancora una volta si consegna al lettore, mani e piedi legati e si da’ tutto. Con quel suo linguaggio semplice e, al tempo stesso calibrato, lo scrittore ci regala ancora una volta la cifra essenziale di un modo di scrivere che è sinfonia, genio incontrollabile, errante e speciale. Il tutto accompagnato da dettagli oscuri, a volte perturbanti, sensuali e cinematografici.
A ricordarci che le assenze, da qualsiasi angolazione le si guardi, bruciano come ferita viva ad ogni rievocazione e che, nella rievocazione si riconoscono come malattia e, al tempo stesso, cura.