L’esploso, il “Casino” e l’origine nell’arte di Damián Ortega
L’arte di Damián Ortega non si lascia catturare facilmente. Sfugge alla presa, pur mostrandosi scomposta nella sua totalità più pura. Ogni oggetto, ogni installazione è carica di movimento e di una particolare ed indomabile forza. È inafferrabile, vibrante, elettrica. È un’arte sospesa, però. Come un direttore d’orchestra, Ortega regala al visitatore un esploso continuo in pausa. Nella sua prima personale (Casino) in Italia, inaugurata il 4 giugno all’Hangar Bicocca, a cura di Vicente Todolì, Ortega si racconta proponendo al visitatore un invito al viaggio in 19 opere.
Classe 1967, nato a Città del Messico e con un passato da vignettista, l’artista ama l’ironia sottile e amara, possibile solo grazie ad un attento uso del linguaggio. Sa giocare con gli enigmi e riesce a proporre titoli che vanno al di là della semplice denominazione. In Pico cansado (1997), ad esempio, propone al visitatore un martello privato della sua spina dorsale, in un ready-made alla Duchamp, inerme e immobile, mentre in Prometeo (1992) allude al famoso mito greco, rappresentato da una candela quasi del tutto consumata e che, inevitabilmente spenta, richiama alla crisi energetica vissuta dal Messico nella metà degli anni ‘50.
Ortega è diventato celebre per la trilogia del maggiolino, The Beetle Trilogy, un percorso che, come dichiara l’artista stesso, non è un punto di arrivo ma una “narrazione aperta”, concentrato sul ruolo della Volkswagen in Messico. L’automobile, macchina popolare molto diffusa nel suo paese e usata come taxi, viene riproposta in chiave titanica, scomposta in ogni sua parte (Cosmic Thing, 2002) ed esibita da Ortega come fosse uno scheletro di dinosauro, grazie all’ausilio del manuale di produzione. In Moby Dick, 2004, viene invece trasformata in nemico, e diventa l’avversario contro cui l’artista ingaggia una lotta impari richiamandosi al romanzo di Melville, per finire poi sotterrata (Escarabajo, 2005) nell’ultima tappa di quello che può definirsi un vero e proprio nóstos, in uno dei luoghi di produzione e dunque di nascita del veicolo, a Puebla in Messico.
I richiami al sociale non mancano nell’opera di Damián Ortega, artifex attentissimo e sapiente, sensibile ai cambiamenti che lo circondano. Incidental Configuration (2013) invita lo spettatore a riflettere sulla “città che sale” linda e pinta, che oscura e nasconde la povertà e il disagio delle classi meno abbienti. Un plinto in legno, bianco e brillante copre le favelas, rappresentate da numerosi cubetti di cemento.
In Hollow/Stuffed: market law (2012), una notizia letta su un quotidiano locale offre lo spunto per un’amara considerazione sull’evoluzione del commercio. Riproduzione di un prototipo di sottomarino costruito da alcuni narcotrafficanti per trasportare la cocaina – il nuovo sale del Messico – l’opera richiama la poesia di T.S. Eliot The Hollow Men (Gli uomini vuoti, 1925). Quest’umanità che si svuota, che fagocita senza far proprio nessun valore, richiama a sua volta il romanzo di Joseph Conrad Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899) e i fallimenti del colonialismo.
E se è vero che noi siamo la nostra storia, Ortega ce lo ricorda riproponendo il cuore della cultura tedesca in cui si è immerso per anni, in un omaggio alla città di Berlino con Estatigrafia 4 (2012), una sfera divisa a metà composta da ritagli di giornali e affiches, filamentosa, di cui si intravedono i trascorsi storici, quasi fosse un fossile o un tronco d’albero, libro aperto del tempo vissuto.
L’arte di Ortega è un’arte ponderata, pensata e attentissima a regalare allo spettatore un enigma continuo. L’artista modella, ammorbidisce i materiali cementizi e colora il grigio imperante delle argille, in un puzzle da costruire, pezzo dopo pezzo, alla ricerca dell’origine delle cose.
Damiàn Ortega | sito
Hangar Bicocca | sito