Luciano Ferrara, fotografia e rivoluzione
Luciano Ferrara è una figura fondamentale e nota della città di Napoli. Il suo atteggiamento polemico e arguto ha saputo dar voce a fenomeni e a cambiamenti sociali, quali le rivolte studentesche e le lotte dei disoccupati, eventi documentati nei suoi scatti fotografici. Dalle lotte nel territorio italiano è passato poi alla realizzazione di reportage giornalistici in territori internazionali che ancora oggi sono scenari di lotte violente. È per questo che a mio avviso è inutile presentarvi in maniera troppo prolissa e retorica la figura di Luciano Ferrara, basta solo sapere che dietro le sue foto ed i suoi lavori di reportage si nasconde una cultura, un’indagine profonda dei fatti sociali ed una grande passione che ha solo chi desidera scrutare bene con occhio attento e critico ciò che si nasconde dietro gli avvenimenti di tutti i giorni. Luciano Ferrara è anche un po’ come l’immaginavo, una persona affabile, gentile e affascinante per il suo modo di raccontarsi e accogliendomi nel suo appartamento, che domina dall’alto il golfo di Napoli, il fotogiornalista comincia a parlare di sé.
Innanzitutto come e quando nasce Luciano Ferrara e la sua Fotografia?
Qualche anno fa, negli ani ’60-’70 quando si andava in bottega come assistente in uno studio di un fotografo per imparare il mestiere e andai a lavorare a Piazza Cavour, dove si fotografava di tutto, dalle feste, ai matrimoni, ai funerali. Non c’era nella mia testa l’idea di fare il reporter, anche perché a 15 anni anche se ti piace la Fotografia vai in uno studio soprattutto per lavorare. Questa formazione è durata 5 anni tra il classico studio fotografico ed i laboratori che stampavano in bianco e nero e che erano prevalentemente al servizio dei fotografi professionisti specializzati in matrimoni. La mia lunga esperienza di saper fotografare in bianco e nero deriva proprio dalla lunga permanenza nella camera oscura. Napoli poi sul matrimonio possiede una scuola molto seria che vanta una lunga tradizione con validi fotografi.
Quando poi ha cominciato ad interessarsi al fotogiornalismo?
Negli anni Settanta. I notevoli cambiamenti di quel periodo e le nuove idee dei giovani mi hanno portato a seguire quella scia di movimenti e lotte, facendomi avvicinare al fotogiornalismo. Seguivo le proteste dei giovani all’università e nelle scuole, i cortei dei disoccupati, tutti eventi di una storia sociale che mi hanno indotto alla formazione di una fotografia impegnata. Grazie a questa e alla società sono cresciuto seguendo i cortei. Credo che il fotografo abbia la responsabilità di registrare e documentare alcuni avvenimenti, sapendo esattamente cosa stia facendo. Superati gli anni ’70 e ’80 mi sono posto la domanda su come diventare professionista, perché se si vuole vivere di questo mestiere bisogna anche capire quale sia il percorso e da qui è nata la mia collaborazione con “l’Espresso” nel ’75, poi con “Il Mattino” intorno al ’77-’80, infine con “Il Corriere della Sera”. La Fotografia è un punto centrale dell’informazione, con una buona foto si può raccontare un servizio e in seguito a ciò è iniziata la mia collaborazione giornalistica internazionale. A quel punto occorreva uscire da Napoli ed intrapresi il mio primo viaggio in Libano, ai tempi dell’invasione di Israele a Beirut, che fu completamente distrutta.
Visto che questa è stata la sua prima esperienza da fotoreporter ha mai temuto per la sua vita e come si è rapportato di fronte a questi avvenimenti?
Credo che questo sia l’ultimo pensiero del fotoreporter, non perché non sia una persona responsabile, ma se tu decidi di intraprendere questo mestiere non devi assolutamente pensare che possa succederti qualcosa. Il solo pensiero ti porta a non partire. In qualsiasi posto poi potresti temere per la tua vita, indipendentemente dalla guerra, pensiamo a Napoli ad esempio, è una città quasi in guerra. La strada del fotografo internazionale con temi impegnati ti porta a sorvolare sul problema della lotta, poi non c’è nessuna remora a dire non parto, questa è una tua scelta.
E dopo il Libano?
Dopo Beirut, poi c’è stato l’Est europeo, l’Albania e la prima Guerra del Golfo. Non ho partecipato alla Seconda Guerra del Golfo con l’invasione dell’Iraq perché nel frattempo la scena internazionale riguardo ai fotografi è cambiata. Essendo freelance devi finanziarti e fare un’assicurazione molto costosa, investi su te stesso per poi recuperare i soldi. Il fotogiornalismo nasce proprio da questa dualità: uno produrre l’idea, l’altra venderla. La situazione in questo momento è difficile perché i giornali hanno un po’ stretto la cinghia, ridotto di moltissimo il budget fotografico, poi c’è una grossa concorrenza ed un enorme diffusione sul web di foto che costano poco, a discapito della qualità. Capita infatti di vedere immagini abbastanza banali. A parte i grandi giornali, gli altri acquistano foto di poco valore proprio per risparmiare.
C’è un reportage che più le è rimasto nel cuore di quegli anni?
Alcuni reportage ti sono più a cuore perché hai conosciuto più gente oppure ci sei entrato con più passione, perché il fotografo fa anche questo: partecipa alla costruzione del servizio con la sua personalità e con il suo sapere. La fotografia non è scattare una foto, devi documentarti su ciò che vai a fare, altrimenti non riesci a creare un buon servizio. La cosa bella è che incontri e conosci molte persone e questa è anche una ricchezza per il tuo mestiere. Gli altri ti danno tanto, anche se dai anche tu, ma a volte ricevi amicizia, affettività, conoscenza. Il fotogiornalismo ti fa imparare molte cose perché vivi per strada, questa è una scuola fondamentale, è qui che tutto succede.
Ci si unisce nel dolore guardando ed immortalando situazioni complicate?
Non c’è dubbio che partecipi al dolore. Nessuna guerra è giusta, ma devi un po’ allontanarti da questa situazione. Se vedi una scena violenta, potresti anche decidere di non fotografare ed aiutare, ma se tu fotografi registri quello che vedi e così milioni di persone possono sapere cosa succede in quel posto in quel momento. Se tu non fai questo vieni meno al tuo lavoro, al tuo dovere di reporter. Non puoi scindere le due cose. Il discorso che faccio non è cinico, è professionale.
Dal reportage poi lei è passato a documentare ed immortalare ciò che succede nella città di Napoli e la città stessa …
Io parto da Napoli. La mia produzione fotografica si concentra maggiormente su questa città. È qui che negli anni Settanta è cominciato un mio lavoro sulla disoccupazione su cui ho posto attenzione ed energia a partire dal ’75 fino al ’97. Ho seguito per trenta anni i disoccupati e la loro situazione, dopo ciò ho pubblicato un libro. Un altro mio lavoro legato alla città è quello sui “femminielli”, durato 20 anni. La cosa interessante dell’informazione è che se segui un servizio o un movimento questo può durare 5, 10, 30 anni. Il reportage sui “femminielli” è stato fondamentale per raccontare la storia di queste piccole “etnie” napoletane. Non sono viados brasiliani, arrivano da una struttura popolare e sono perfettamente inseriti nella società napoletana. A me non interessava la prostituzione, ma documentare la loro presenza. Tutte le mie foto nascono da un attenta osservazione del loro corpo e della loro condizione. Ho lavorato seguendoli nei posti dove abitavano, nei vicoli, nelle feste. Ne è nata un’inchiesta sociologica, prodotta in collaborazione con l’università e la facoltà di Sociologia. Con l’immagine si possono capire meglio i fenomeni attuali ed entrare nella loro struttura. Altro aspetto interessante di Napoli, come di altre città è la periferia. Negli anni Ottanta sempre con la facoltà di Sociologia siamo andati ad indagare sulla 167, la legge dello Stato sull’edilizia popolare, classificata con questo numero. Tutte le persone che erano state sloggiate da Napoli in quegli anni furono trasferite in questo vero e proprio ghetto, dove abitava gente che apparteneva alle più disparate classi sociali. Da ciò si può capire come il lavoro del fotografo un tempo presupponeva l’acquisizione di una certa cultura, una conoscenza. Oggi mi sembra anche più banale tale mestiere. Basta che hai una buona macchina fotografica e sai fare foto decenti, ma se non hai un retroterra di conoscenze è inutile creare servizi e reportage. In tutto il mondo c’è una grande apertura alla Fotografia, ma a mio avviso c’è un po’ di confusione. Questa situazione danneggia anche la professionalità, perché vivere di fotografia e fare Fotografia sono due cose diverse. Un buon fotografo nella sua intera carriera non ha molte foto, produrre delle buone immagini non è molto semplice.
Lei cosa consiglierebbe ad un ragazzo che vuole diventare un fotografo professionista?
Io arrivo al mestiere dalla bottega. La bottega non esiste più e quindi bisogna sostituirla con un’altra situazione e magari con corsi professionali o scuole di Fotografia. A Napoli c’è solo l’Accademia delle belle Arti che ha istituito un biennio di Fotografia, diverso è il caso di Milano o Roma, dove ci sono scuole serie che insegnano questo mestiere. L’unico problema è il prezzo, perché per iscriversi ai corsi ci vogliono soldi. E dopo che succede? C’è una crisi sulla produzione giornalistica, anche perché i mezzi di comunicazione sono cambiati e c’è troppa accessibilità al lavoro nero. In questa professione solo pochi giovani lavorano. La mia generazione è vissuta tutta durante il Neorealismo, quando occorreva raccontare delle storie, ora non è più così, sono narrati più fatti internazionali, eventi in generale, ma la storia delle persone nessuno più la racconta.
Certo che lei ha vissuto in un periodo veramente particolare e movimentato per la crescita dell’Italia. Cosa lei vede attualmente nella società italiana?
Apparentemente sembra che oggi succedano più cose, ma sono eventi di non grande importanza. La costruzione della Storia non passa più attraverso le persone, attraverso le contestazioni, tutto succede. Comincia un cambiamento, ma chi poi lo deve portare avanti viene fatto fuori e la decisione è presa dall’alto. Quando ho seguito i disoccupati la maggioranza era analfabeta, poi attraverso questa lotta i comitati dei lavoratori hanno subito una crescita sociale e culturale interessante che ha portato i disoccupati a capire una serie di cose anche grazie ai doposcuola serali. In un certo senso la lotta ha insegnato e migliorato culturalmente, cosa che attualmente non succede, manca l’approfondimento nelle battaglie e nelle contestazioni. L’indagine ti aiuta nella crescita. Anche la fotografia di reportage necessita di questa analisi. Tu prendi un impegno sociale, se vieni meno a questo concetto la fotografia diventa un mezzo strumentale.
In occasione del Forum delle Culture è stato presentato un documentario sul suo lavoro, lei quando si è rivisto cosa ha pensato, come è cambiato Luciano Ferrara nel corso della sua carriera?
Innanzitutto sono soddisfatto di questo documentario. Mi ha fatto piacere che a produrlo siano stati i “Figli del bronx”, persone della 167. Diciamo che erano ex disagiati che hanno intrapreso questo lavoro, creando una cooperativa con l’aiuto di Peppe Lanzetta e attraverso la cinematografia hanno cambiato la loro vita, anche perché non delinquono più. Questo passaggio li ha condotti alla salvezza e sono contentissimo che siano stati loro a produrre questo documentario perché hanno rivisto in me un fotografo valido. Detto questo è chiaro poi che quando rivedi te stesso e la tua storia rivivi certe situazioni, fino a ricordare esattamente come hai fatto determinate foto, chi hai incontrato, cosa è successo e questo è straordinario per la memoria visiva. Tutto ciò costituisce una ricchezza enorme che ti aiuta a crescere e a maturare certi pensieri. Con la regista poi siamo stati nel mio paese natio, Cimitile, ed abbiamo visitato le chiese paleocristiane dove giocavo a pallone. Lì ho ricordato tutto della mia infanzia.