Martha Cooper e la purezza dei graffiti
Non sono mai stato un grande fan dei graffiti. Penso sia perché non ho mai iniziato a farne, e adesso ho quasi 30 anni e mi sembra un po’ una cazzata iniziare a cercare di capirli. Mi sa tanto di gioco a sentirsi adolescente. Però una cosa è certa: parlare con Martha Cooper mi ha fatto capire che una via d’accesso per comprendere la grandezza dei Graffiti esiste, e sta molto vicina al posto e al momento in cui essi sono apparsi nel nostro caro mondo moderno.
Perché, secondo te, i graffiti sono nati proprio a New York?
Beh, in effetti, non ho una buona risposta per questo. Potrebbe essere qualcosa di relativo non a New York in generale ma a quella determinata New York, la New York che si affacciava negli anni ’80. Era facile accedere ai depositi dei treni, c’era una moltitudine di ragazzi frustrati, ma tutto ciò era comune a tutti i paesi del mondo. Credo che la nascita dei graffiti, piuttosto che legata al tipo di posto che era New York, vada ricondotta alla fascinazione che essa riuscì ad esercitare su un gruppo di ragazzi, una youth non per forza povera ma semplicemente infelice, insoddisfatta. Quella generazione era del tutto lontana dalle potenzialità dell’arte, relegate ai luoghi istituzionali. E così, improvvisamente, crearono la loro musicai loro graffiti, la loro danza, crearono la loro propria connessione con quel mondo così lontano. Probabilmente il fatto che tutto ciò sia accaduto a New York è un fatto semplicemente accidentale.
Che cosa ti ha portato a dedicare la tua vita alla Graffiti Art?
Parte della mia mostra qui a Palazzo Incontro per il Festival Outdoor esibisce alcuni scatti degli anni ’70, periodo in cui ero interessata ai modi in cui i bambini di strada si ingegnavano per creare e costruirsi da sé i loro giochi. Avevo visto e documentato vari fenomeni del genere in giro per il mondo, e quando negli anni ’80 feci ritorno a New York la mia attenzione era tutta rivolta a scovare questi tipi di creatività infantile. Fu allora che incontrai un ragazzino che mi mostrò questo suo album pieno di schizzi del suo nome d’arte, HE3. Fui sconvolta dal suo modo di esercitarsi, da quella che mi sembrò una vera e propria ricerca dove io, fino ad allora, avevo visto solo vandalismo. Fu lui a introdurmi a DONDI, che a sua volta mi fece conoscere l’intera scena. Era così difficile per quei ragazzi fare quello che facevano, nell’illegalità. Era come una forma d’arte completamente pura, senza che vi fossero in gioco soldi o gallerie. Era un mondo segreto.
Come vedi il fatto che, ad oggi, molte gallerie sono ben contente di fare soldi con i graffiti e molti artisti sono altrettanto orgogliosi di rientrare in quel ‘sistema’?
Per quanto riguarda me, i miei gusti, preferisco sempre guardare alla strada. Tuttavia non posso disprezzare il fatto che ci possa essere un scambio di quelle opere d’arte, che un graffito possa essere ritenuto qualcosa di prezioso, che degli outsider possano finalmente ricevere delle attenzioni dai collezionisti, che un’artista insomma possa fare dei soldi con la sua arte. Non posso certo essere contro il fatto che anche questa forma d’arte abbia quante più vetrine possibili, nuovi canali di diffusione, nuove possibilità di interessare. Non posso criticare le gallerie, o i collezionisti, o i ragazzi che vogliono vendere i loro lavori.
Io però, personalmente, preferisco quei ragazzi fanno quello che fanno esclusivamente for each other. Fare graffiti con l’aspirazione dei soldi o della visibilità istituzionale può sicuramente snaturare, corrompere questa forma d’arte che, ripeto, vedo come qualcosa di molto puro.
C’è uno scopo politico nel fare Graffiti?
E’ un atto politico in itself. E’ vero, esistono molte forme di graffitismo politico, scrivere su un muro ‘yankee go home!’ è sicuramente una di queste. Ma di per sé, come atto, esso è sempre politico, è un modo per dire look at me, this is my place in the city, i’m here. It’s me!.
E che tipo di atto è documentare fotografare i graffiti? E’ un atto artistico, antropologico, giornalistico, politico?
E’ qualcosa di tutto questo. Per quanto riguarda me, io voglio semplicemente documentare un pezzo, una tag, un’opera. Quando faccio foto non cerco un’angolazione inusuale, le mie foto non sono qualcosa a proposito di me, ma qualcosa a proposito dell’arte, di quell’arte in particolare. Io cerco semplicemente di fare entrare nella foto un’opera e di ficcarci dentro un pezzo del suo contesto, non sono interessata in enormi lenti grandangolari e cose del genere, non voglio distorcere quello che documento. Le mie foto non sono unusual a causa di qualche tecnica particolare, ma solo per i loro soggetti.
Quello che vorrei chiederti allora è: che differenza c’è tra le tue foto e quelle che ognuno di noi scatta con il cellulare e condivide su Facebook, Twitter, Instagram?
Probabilmente nessuna. Adesso, oggi, non c’è nessuna differenza. La differenza viene dal passato. La differenza, nel mio modo di vedere le cose, la fanno i soggetti, ed io ho avuto la possibilità di fotografare certe cose e certe persone quando nessuno era interessato a loro. Adesso non c’è niente che renda le mie foto così particolari, e sto cercando altri soggetti in grado di farlo. Domani andrò in Sud Africa per un progetto in cui cerco di confrontare i quartieri SudAfricani con quelli di Boston, etc.
Intervista a cura di Stefano Pontecorvi ed Eva Di Tullio. Fotografie di Stefano Pontecorvi.
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