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Mattia Fagnoni una Onlus a tinte pop

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Simona e Francesco si sono conosciuti su internet tramite un amico comune. Lui sardo, lei napoletana. Hanno tanti tatuaggi e un negozio di abbigliamento streetwear al centro di Napoli. Vivono in un palazzo d’epoca con una vista mozzafiato sul golfo ed il caos partenopeo che li circonda e spesso opprime. Assomigliano a tante coppie giovani che conosco. Hanno due bimbi, Mattia e Nicola. Mattia ha una malattia che colpisce un bimbo su 130.000 che si chiama sindrome di Sandhoff. Francesco dice che succede solo se i due genitori hanno un patrimonio genetico quasi uguale ed il fatto di essere nati in due zone geografiche separate dal mare ti porta a consacrare il fatalismo come unica via possibile per dare una forma più addomesticabile alla sofferenza. Quella c’è ma non si vede perché è sotto strati su strati di dignità, energie buone, voglia di fare e trovare soluzioni possibili e impossibili, di sentirsi utili a se stessi e ad altri colpiti dallo stesso senso di abbandono in un paese che si manifesta solo per ostacolare le poche soluzioni possibili.

Mattia Fagnoni e la mamma Simona - foto di Katia Di Ruocco

Mentre io scrivo queste righe in uno scontato Times New Roman 12 Mattia è in viaggio per Brescia. Lì farà la seconda infusione di cellule del metodo Stamina. Una semplice iniezione. 30 minuti di trattamento per tanti minuti di speranza in più. L’unico ospedale in Italia dove è possibile farla è lì e ci sono camera, servizi, viaggio da pagare. A ciò va aggiunto tutto quello che serve al piccolo guerriero Mattia per superare un’ altra giornata e far andare a dormire mamma e papà pensando che anche oggi è andata. Molte più cose di quelle che può contenere la cameretta di un bambino di sei anni. Ci sono tanti modi per parlare di questa storia. Si potrebbe parlare di una malattia rarissima e degli ostacoli burocratici e culturali delle cure con le staminali in Italia. Si potrebbe parlare delle difficoltà di ottenere attenzione dagli enti statali. Si potrebbe parlare degli intoppi del voler mettere su un business a fin di bene con il mercato dell’arte nel nostro paese. Ma invece di parlare di cose ferme parliamo di cose che si muovono e muovono pensieri attivi: la Onlus Mattia Fagnoni. Dalla passione di Simona e Francesco per street art e toys customizzati nasce un’ associazione che raccoglie donazioni di artisti da tutto il mondo per finanziare cure e assistenza a Mattia e altri bambini con le sue necessità.

foto di Katia Di Ruocco

Francesco chiarisce subito la divisione dei ruoli: “io sono lo stronzo dell’arte, lei è il cervello pragmatico”. Si, perché l’idea di una Onlus che raccoglie fondi con un genere d’arte così underground e “giovane” in sostituzione ai quadretti a punto croce e ai paesaggi naturali è davvero bella, ma anche parecchio complicata. Ci si crede fino in fondo, ci si emoziona per Atom che spedisce un suo lavoro per la tua iniziativa, ma i famigerati fondi da raccogliere non si manifestano molto facilmente. Le persone non hanno soldi da spendere in “pezzi di carta dipinti”, non hanno tempo di interessarsi. E dopo le persone ci sono i funzionari del comune. Gli assessori. I galleristi. Gli internauti che ti danno del truffatore senza conoscerti. Quelli che ti supportano con i like e quando possono fare qualcosa di concreto diventano invisibili come i supereroi.

Sono stata a casa Fagnoni e questo è il concentrato di una lunga chiacchierata durante un pomeriggio ordinario della famiglia che vorrei nel prossimo spot del Mulino Bianco per tanti motivi.

foto di Katia Di Ruocco

State lavorando sodo per far conoscere la vostra Onlus. Come si fa ad arrivare alle persone?

 

Per avere una comunicazione reale bisogna sapere con chi si sta parlando: se parlo con una mamma devo usare poche parole e mirate, non intavolare discorsi complessi. Io tengo molto a farci conoscere di persona, a invitare la gente a vedere Mattia, a vedere come viviamo. Devono sapere che siamo veri e non siamo trafficanti d’arte. Invece parlando dell’aspetto puramente “commerciale” sappiamo che al giorno d’oggi la gente non vuole fare grossi investimenti di soldi, vuole divertirsi, vedere cose sempre nuove. Oggi vanno i toys customizzati, domani magari non li guarderanno neanche e allora bisogna occuparsi di tutto ed essere disposti a cambiare. Stiamo dando via i pezzi della collezione con le lotterie, le persone comprano un numeretto e magari sono felici così perché hanno contribuito, ma noi non sentiamo di “fare carità” in senso tradizionale perché offriamo opere di un valore oggettivo anche se molti il quadro non lo vogliono neanche perché non sanno dove metterlo.

 

Gli ostacoli maggiori con cui dovete scontrarvi ogni giorno?

 

L’ignoranza. Se vai al comune e becchi la persona sbagliata che non è interessata all’arte che stai proponendo risponderà con un “no” ad ogni tua richiesta. Ho chiesto uno spazio espositivo a Montepio della Misericordia, un antico monastero di Spaccanapoli con una raccolta di opere donate alla Chiesa. Ho contattato le suore che lo gestiscono, ho spiegato al telefono chi fossi e cosa facessi. All’inizio volevano addirittura farci una donazione, poi le ho volute incontrare e mostrargli delle stampe e si sono tirate indietro dicendo “sono cose particolari ma non le trattiamo” perché erano lavori di writers.

 foto di Katia Di Ruocco

All’estero per associazioni come la vostra c’è un attenzione diversa?

 

Sicuramente, in Italia la beneficenza è solo carità, negli Stati Uniti i bambini malati vivono di beneficenza. E’ un discorso che si espande anche al crowfunding per finanziare film, musica, progetti. Qui sono cose ancora considerate ai limiti dell’assurdo, all’ estero si è meno portati a diffidare di tutto. Anche gli spazi destinati all’arte sono gestiti diversamente. Pensa che non siamo mai riusciti ad avere uno spazio per esporre, l’unica risposta è arrivata dal Museo Madre con la proposta di darci l’area del bar e una percentuale sulle consumazioni. Al Pan è successa la stessa cosa. Ci sono disinteresse e raccomandazioni anche in questo ambito. Ci hanno anche proposto di fare qualcosa con un’ associazione più grande e conosciuta, avremmo avuto più visibilità ed il comune sarebbe stato più “contento” ma non abbiamo accettato, volevamo mantenere la nostra identità. Quando ci sono soldi di mezzo tutti vogliono avvicinarsi, molte associazioni ci hanno proposto addirittura di entrare nello statuto.

 

Cosa augurate alla vostra associazione?

 

Di dare risultati concreti ai nostri sforzi.

Ted Negatron

Le persone sensibili all’arte sono più portate ad essere sensibili anche a problemi reali come la sindrome di cui soffre Mattia?

 

Dipende da molte cose, la prima differenza è tra acquirenti e donatori. Molti artisti hanno donato non per la causa in sé ma per far parte di una raccolta e comparire sui media. Così come chi compra lo fa spesso a prescindere dal come verranno impiegati i soldi pagati, compra per fare un affare, come nel caso di uno Sten e Lex portato a casa da un collezionista per 600 euro. Sono due binari differenti e ci vanno bene entrambi perché il collezionista è contento e noi abbiamo raccolto fondi.

 

Cosa pensi delle foto dei bimbi malati sui profili fb? E’ indubbio che la foto di un bimbo che sta male faccia più presa ed in questo caso il fine giustifica davvero il mezzo, ma si invade la privacy delle famiglie e si viola il rispetto per la sofferenza.

 

Ho provato questa cosa sulla mia pelle con Francesco. Era un periodo in cui Mattia stava malissimo, io ero sempre in ospedale e lui ha pubblicato su fb una sua foto appena uscito dalla sala operatoria. All’inizio gli ho detto “ma sei pazzo?” ma poi ho capito che quel gesto per lui era un modo di comunicare a tutti che Mattia stava bene e di ricambiare l’affetto di chi ci sostiene. L’associazione e la pagina online per Francesco sono curative, attraverso il contatto con gli artisti e il lavoro trova coraggio. Però quando si apre un profilo sui social solo per parlare della malattia di un bimbo non lo condivido. Molti mi dicono che non parliamo mai di lui su fb e non postiamo foto ma per me si rischia spesso il fanatismo, non si sa mai se c’è un bisogno reale o solo voglia di mettersi in mostra, e questo mi porta anche a riflettere sull’immagine che diamo di noi all’esterno, su come risultiamo agli occhi delle persone.

 

 

C’è qualche aneddoto legato agli artisti con cui siete entrati in contatto che vi è rimasto impresso?

 

Tempo fa abbiamo organizzato un evento qui a Napoli con un live painting. C’era un tavolone con una decina di artisti impegnati a dipingere un toy o un’opera: tutti sono venuti da varie parti del mondo pagandosi il viaggio perciò noi abbiamo offerto l’alloggio in città. Io non ho potuto vederli all’opera perché ovviamente ero casa con Mattia e allora ho proposto a Francesco di portarli tutti a casa ed ordinare delle pizze. Ricordo quando sono entrata in salone e li ho trovati tutti lì. Ho avuto paura che il pavimento sprofondasse per quanti erano, tutti ragazzi di nazionalità diversa, italiani, francesi, americani, tutti seduti a terra a mangiare la pizza.
Francesco è quello che si occupa di contattare gli artisti, bisogna inseguirli un po’ ma alcuni rispondono, altri invece credono di essere importunati da truffatori.

 Foto di Katia Di Ruocco.

 

Mattia Fagnoni Onlus | sito | facebook

la Germanz

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Questo è il suo articolo n°102

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