Mogwai took me somewhere nice
La prima volta li scopri in tutta la loro potenza. La seconda volta impari a seguire i ritmi del loro live. La terza volta ti puoi lasciare andare a qualche giudizio tecnico. La quarta è la volta della consapevolezza. Lunedì sera. Alle 7 sono ancora in ufficio e sto sudando freddo al pensiero di non riuscire ad arrivare in tempo per il concerto. Alle 7 e 20 siamo in autostrada. Alle 9 nell’afoso Alcatraz.
Siamo in attesa tra una folla di ragazzi che limonano duro e che smettono soltanto quando le luci si spengono per lasciare spazio all’oscurità di un palco allestito solo con qualche tocco di luce, quanto basta per mostrare i Mogwai.
Una scaletta che abbonda di brani dell’ultimo album, giocati alla perfezioni tra luci, violini, percussioni e voci. Take me somewhere nice incastrata all’inizio, che mi fa versare una, sola, composta, lacrima. Un’ultima parte che ti trafigge il cuore, il fegato, le orecchie e gli occhi con Batcat, The Lord is out of control, Autorock e l’unico possibile finale con Mogwai fera Satan. A differenza delle ultime due volte (la prima non è mai da contare, la prima è stata emozione estatica pura), gli scozzesi mi sono sembrati più equilibrati, invece di un’evoluzione che aveva l’apice a metà live hanno scelto un andamento che tra alti e bassi, esplosioni di potenza e tocchi di classe che confermano ciò che ho sempre pensato di loro: sono demoni. Tamarri demoni. Ma non è questa la consapevolezza di cui vi volevo parlare.
Mentre ero lì, in ascolto, attenta, ho capito quanto siano possessivi nei nostri confronti. Ti privano dell’esperienza di gruppo che invece regalano i My Bloody Valentine o i Mono. Spezzano le catene dell’unione partecipativa e ti costringono a un’esperienza individualistica, totalitaria, asociale. Egoistica.
Il rapporto che ognuno dei presenti ha con le canzoni è esclusivo e incomprensibile agli altri. Non siamo una folla, ma un insieme di solitudini in balia di loro stesse, che non stanno facendo parte dello stesso luogo né dello stesso momento. Il mio vicino saltava, chi mi stava di fronte ciondolava in avanti, qualcun altro alzava le braccia. Quando l’ho capito li ho disprezzati per aver saputo strapparmi addirittura da me stessa.
Volente o nolente ho dovuto affrontare i miei pensieri, che si sono infittiti e mi hanno obbligata ad addentrarmi in me stessa, mentre fissavo le luci che giocavano sulle teste del pubblico. E così ho trascorso l’infinito attimo del live. Distaccata completamente dal resto, calpestando la storia di una altra me che ha imparato a memoria ognuna di queste note. E, improvvisamente, come quando nei sogni cadi, mi sono risvegliata, scossa da un urto sonoro che ti prende a schiaffi e ti costringe ad ascoltarlo, facendoti smarrire la strada e straniandoti dalla tua mente. Ho lottato per non lasciare che i miei occhi si gonfiassero, mentre sentivo che la gola si stringeva in un nodo difficile da districare, perché non sono una persona emotiva.
E sull’ultimo brano ho atteso, senza fiato, con il cuore che batteva a tempo dei tasti del piano, ben sapendo che di lì a poco sarebbe scoppiato il suono e sarebbe stato fortissimo. Ho sussurrato “adesso” proprio come una bambina che conosce a memoria il gioco ma si spaventa sempre, ho stretto il braccio del mio ragazzo per proteggermi. E quando è arrivato, devastante, totale, inaffrontabile, lo spavento è durato quella frazione di secondo necessaria a liberarmi in una risata infantile, felice e imbarazzata.
Ho alzato lo sguardo, piena di orgoglio e soddisfazione.
Intorno a me, altre solitudini raccoglievano i pezzi dei loro pensieri in frantumi e si avviavano all’uscita.