Nel Giardino, di Emanuela Cocco
Un testo su donne e ruolo materno. Un testo dove incombe presente e indecifrabile lo sguardo dei bambini, spettatori nascosti e incompresi. I bambini ci osservano, ci giudicano, ci assecondano fin dove possono e fin quando vogliono, assecondano i nostri sogni, i nostri modelli. Poi agiscono. E quando agiscono si svelano per quello che sono, individui, non bambolotti. Lo sguardo dei bambini non è compreso dai genitori in tutta la sua dirompente conseguenza. Trattati come “carne della propria carne”, animate ma docili estensioni del proprio ego, i figli sono spettatori non visti dello spettacolo familiare, e delle finzioni e bugie di cui spesso gli attori-genitori sono portatori. Strano testo questo di Emanuela Cocco, dramma borghese, dai tratti ibseniani, spigoloso, a volte sfuggente, impalpabile, nascosto nella piatta quotidianità di due donne che sono madri ma anche mogli e che a questo servizio reso ad altri (figli e mariti) dedicano la propria vita, sino quasi a svanire nel nulla, il nulla della loro personalità. Due donne, due mariti, due figli, un’unica finzione. E che finzione: si finge un figlio a propria immagine e somiglianza, un figlio che preservi il proprio mondo, bello, brutto, misero, falso, vivo, quello che sia. Figli immaginati, scolpiti con i propri desideri, figli mostri creati dal delirio d’onnipotenza dei genitori. Parliamo di persone note, persone che non sentono il dovere delle chiarezza, verso gli altri, verso se stesse. Parliamo di persone che un giorno, un giorno qualunque, non diverso dagli altri, capiranno che quel dolce nanetto di carne paffuta li ha spiati per anni, ha compreso le loro bugie ed ora, forse, le rifiuterà disgustato, oppure le farà sue, mostrando impietoso ai genitori la bruttezza della loro creazione.