Out of Money | Stefano, lo sbeffeggiatore dell’Atac
E dopo il racconto appassionato della settimana senza vizi di Claudia, anche Stefano ci ha fatto un resoconto della sua settimana Out of Money. Queste sono le sue sensazioni e le sue sventure. Se l’Atac sapesse!
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Quando Maria ha proposto il progetto Out Of Money con relative motivazioni sono stato preso da un fervente quanto irrazionale entusiasmo, cosa che mi fa riflettere non poco sulla mia indole altalenante e un po’ incosciente. Il weekend precedente la fatidica settimana, preso da spirito spavaldo e convinto di dover vivere un’esperienza “totale “ ho evitato di comprare alcuna nuova provvista per la settimana, dedicandomi al consumo di quelle futilità che mi alleggerissero lo spirito prima di affrontare l’impresa.
La prima settimana della mia vita senza un euro si apre in condizioni quanto meno poco favorevoli: è il mio primo giorno di lavoro, in un noto negozio di Via del Corso e i miei nuovi capi, noncuranti e non informati della nobile causa sposata per Ziguline, si mettono in testa a suon di mansioni al limite della violazione dei diritti umani di farmi svanire dalla testa qualsiasi velleità di prendermi gioco del sistema capitalistico. Le prime difficoltà, che come croci mi perseguiteranno per tutta la settimana, manifestano la loro criticità sin dalle prime battute. Il trasporto pubblico e il mangiare saranno per me ostacoli ostici e arcigni da superare.
Sibilanti vaffanculo si accalcano nella mia direzione quando, con fare viscido e approfittando della mancanza del sorvegliante anche lui ammaliato dalla sindrome del fancazzismo latente che caratterizza questa città, mi apro un’uscita di sicurezza e sguscio dentro la metro dando il benservito all’Agenzia Romana dei Trasporti. Il pranzo del mio primo giorno è invece costituito da Pan Bauletto pronto a scadere il giorno seguente e salame abilmente arraffato alla mia coinquilina spagnola la quale, fortunatamente, non legge né sa che scrivo per Ziguline. È un pranzo ricco senz’altro. Da bere acqua di fontanella e grazie tante ai fautori del Sì nei referendum per l’acqua pubblica.
La settimana continua a scorrere tra ristrettezze e tattiche sempre nuove per non arrivare tardi al lavoro. Martedì la mia salvezza giunge da un guasto della rivenditrice automatica dei biglietti che, con mia grande gioia, scomoda i sorveglianti della metro. Seguendo l’antica tattica di tirare cazzotti e pugni alle cose che non funzionano e aggiungendoci improperi di fragorosa comicità, le guardie mi lasciano la strada spianata con i tornelli liberati e mai come ora accoglienti. Mercoledì quasi cedo al fondo d’emergenza: sto facendo molto tardi a lavoro ma la pausa caffè congiunta dei tre sorveglianti mi salva per l’ennesima volta. I viaggi di ritorno invece sono sempre odissee snervanti. Mercoledì sono costretto a prendere quattro autobus per tornare a casa, arrendendomi mestamente davanti all’impossibilità di seguire il turno infrasettimanale del Campionato di calcio. Il Venerdì impiego un’ora e mezza per fare una decina di chilometri per tornare a casa . Passano tre autobus ma i primi due vengono scartati perché preso da paranoia da “portoghese”, ci vedo controllori nascosti e sadici pronti a farmi rimangiare tutta la spavalderia mostrata all’inizio di questa settimana.
I giorni si susseguono e comincio a maturare uno strano rapporto con l’appetito. Mentre nella serata di martedì un qualche dio della mitologia greca ha fatto sì che il mio coinquilino novello ingegnere offrisse a tutta la casa della buonissima pizza e che la mia (santa) coinquilina spagnola offrisse del prosciutto spagnolo tanto ridicolo quanto buono, mercoledì è il giorno in cui follia e precarietà cominciano a fraternizzare. Il mio pranzo consiste in un rimbalzo di cazzotti tra dolce e salato: un pezzo di pizza riscaldato della sera precedente, un pezzettino di brownie bruciacchiato preparato la sera prima con ingredienti scadenti (e forse scaduti) amalgamati con un preparato mix portato da amici dagli Stati Uniti. Infine, per mettere l’appetito in cassaforte prima di lavorare, un aglio, olio e peperoncino (e cos’altro altrimenti?).
Ogni giorno continuo a recarmi a lavoro, scendendo alla fermata della metro di Piazza di Spagna e inoltrandomi nella beltà e poesia del centro storico romano. L’odore pungente e gradevole delle caldarroste rendono lieto il tragitto. La fontana della Barcaccia fa da apripista a Via Condotti, la via del lusso romano, curatissima e scintillante. In questo senso, inoltrarsi dentro un tale tempio di consumismo, rende la sfida di Out of Money anche più attraente.
Col passare dei giorni la sensazione che cresce è che si stia vivendo un’esperienza estrema, che per me è già sufficiente a spiegare molto. Uscire di casa senza un euro è un gesto che suscita un po’ di timore e inadeguatezza. Non che generalmente sia un grande consumatore, tutt’altro. Il punto è che ci si sente costantemente precari: non si tratta di desiderare qualcosa, quanto di volerla e sapere che non si può ottenere. Qualcosa di così normale eppure tutto ad un tratto diventata inaccessibile. Capito cosa intendo? La questione ha molto a che fare con l’aspetto psicologico.
Ad ogni modo, il giovedì è il giorno in cui genio e sregolatezza si mettono in moto. Un coupon comprato tramite Groupon (da un amico) settimane fa e destinato a una serata in pizzeria con le rispettive ragazze, con prenotazione effettuata la settimana precedente, mi mette davanti all’impossibilità di non intaccare il mio portafogli. Il costo del coupon è tanto contenuto quanto bassa è la qualità della cena ma di questi tempi, tutto è oro. Le ipotesi di giocarsi la cena in scommesse salta e così i tentativi malcelati di indurre la mia ragazza a offrirmela. Tutto a un tratto però ricordo di avere una ricarica da 10 euro Vodafone, comprata chissà quando per sbaglio, che non aspettava altro che un’occasione come questa per rivendicare la sua effimera utilità. Il dio della telefonia mobile fa sì che il mio amico abbia un numero Vodafone, cosicché il baratto può compiersi con una solenne ed emozionante cerimonia all’interno della pizzeria. La formula della pizzeria è All You Can Eat e si vede. Ma in una settimana di stenti non esiste più facile soluzione che ordinare un’altra pizza, pur con lo stomaco pieno, col solo scopo di farsela incartare per portarla a casa e farci pranzo e cena del giorno seguente.
L’entusiasmo generato da queste felici circostanze è però presto smorzato, il mattino seguente, da un’influenza che chiude mestamente i miei progetti di vivere un weekend ad alto tasso alcolico nonostante le condizioni dettate da Maria. La festa a casa mia, che avrei denominato Out of Money, avrebbe garantito che gli astanti portassero da bere dalle loro case e che, uscendo di casa, sovrastato dai fumi dell’alcol avrei potuto ben superare l’ostacolo del pudore e lanciarmi in scroccate epiche e fantasiose, alimentate dall’appoggio di una numerosa compagnia votata alla causa Out of Money.
Ma i miei solenni progetti sono affogati in tè caldi preparati con cialde di coinquilini ormai estinti e aspirine della mia ragazza, chiudendo penosamente la settimana. Peccato, del resto quando ricapiterà? Restano l’ebrezza di essermi sentito una sorta di novello Chris McCandless per una settimana e le virtuali e amichevoli vocine degli utenti paganti dell’Agenzia Romana dei Trasporti che continuano a rimbalzarmi nella testa e che sembrano urlare, incessantemente: “ Vai a lavorare, scroccone!”.