Paolo Zardi racconta il suo “XXI secolo” e il declino dell’Occidente
Il mondo può finire nel tardo pomeriggio di un giovedì di marzo. Lui non lo sa, è preso dal suo lavoro, dalla solita vita. Oltrepassa la soglia di casa e percepisce che c’è qualcosa di diverso. E poi la notizia: sua moglie è stata colta da un malore, è in ospedale. Tutto cambia, in un istante, con un abbraccio silente. Eppure, Lui non è del tutto consapevole, ma a portargli via l’anima della donna amata non è stato l’ictus che l’ha resa incosciente. A quanto pare si può andare via da qualcuno anche restandogli accanto, e forse può far più male un desiderio di fuga, soprattutto se è tacito, e se a rivelarlo è un’amara casualità che ci racconta quanto la nostra presenza non sia contemplata nella vita della persona che amiamo.
Lui è il personaggio che prende forma tra le pagine di XXI secolo, il romanzo di Paolo Zardi, edito dai tipi di NEO., tra i dodici semifinalisti della LXIX edizione del Premio Strega. E con Lui prende forma anche una società in crisi, inconsapevole del proprio domani, una realtà che cade a pezzi, ma che allo stesso tempo prova a cercare un equilibrio tra le proprie macerie.
A raccontarci XXI secolo è Paolo Zardi…
In XXI secolo l’improvviso malore di una donna stravolge non solo l’esistenza di una famiglia, ma soprattutto quella dell’uomo che si vede costretto a ricomporne gli equilibri. Quanto può essere devastante scoprire gli scheletri nell’armadio della persona che abbiamo scelto come compagna di vita?
La convinzione di poter sapere tutto sulla vita delle persone che ci stanno vicino è un’illusione piuttosto rassicurante che però si basa su presupposti sbagliati. La scoperta di certe verità è sempre devastante, ma da questa deflagrazione possono nascere nuovi equilibri che poggiano su basi più solide.
Friedrich Nietzsche ha scritto che “le convinzioni, più delle menzogne, sono nemiche pericolose della verità”. Il personaggio di XXI secolo si ritrova catapultato di fronte ad una verità che mette in discussione le convinzioni avute fino a quel momento. E’ più doloroso confrontarsi con una bugia o con la consapevolezza di aver vissuto da estranei la propria vita?
Credo che entrambe le esperienze siano dolorose, ma per motivi diversi. La bugia colpisce la fiducia che si era deciso di riporre in una certa verità: riguarda il rapporto tra se stessi e il mondo, e può condizionare le scelte future. L’improvvisa consapevolezza di aver vissuto una vita immaginaria, basata su postulati sbagliati, investe invece la propria identità, che è costruita sul passato, sul suo ricordo, sulla narrazione che facciamo a noi stessi e che ci definisce. Le convinzioni aiutano a organizzare il mondo, e quindi a progettare una vita in un universo che per definizione tende all’entropia, ma possono anche rappresentare una deformazione insostenibile della realtà. Mi viene in mente una poesia di Montale, che potrebbe essere considerata la spina dorsale della mia produzione letteraria: parla dell’improvvisa, e fugace, rivelazione del mondo per quello che è. La rivelazione della verità può durare anche un istante, ma poi niente è come prima.
Il corpo vuoto di una donna colpita dall’ictus sembra trasformarsi nella metafora di una società allo sbando, che ha perso la propria anima e sembra non avere la forza di reagire alla “malattia” che l’ha messa in ginocchio. E’ lo stato di crisi della società in cui viviamo a determinare lo straniamento dei singoli individui o il contrario?
La mia visione della relazione tra pubblico e privato è piuttosto pessimista: credo che la società influenzi gli individui più di quanto i singoli individui riescano a incidere sulla società. Il ventunesimo secolo, in Europa, è il consumismo del dopo guerra portato alle sue più estreme conseguenze: in assenza di un modello alternativo –fallita l’utopia comunista, secolarizzata la Chiesa –l’Occidente si è trasformato in un grande supermercato dove l’unico valore riconosciuto è l’individualismo: vivi adesso, non pensare al futuro, massimizza il tuo piacere. Questa visione ha sbriciolato tutte le strutture sociali sulle quali si è basata la vita dell’uomo negli ultimi diecimila anni: la comunità legata al villaggio, al paese, al quartiere, le strutture recenti, nate nel ventesimo secolo, a margine dei luoghi di lavoro (i sindacati, il dopolavoro, le casse mutue) e lo Stato sociale. Rimangono ancora la famiglia, le parrocchie, qualcosa legato al mondo della scuola. Per la maggior parte delle persone, però, mancano punti di riferimento, ed è da questa assenza che, forse, nasce lo straniamento.
XXI secolo, pubblicato da un editore indipendente, è candidato al Premio Strega. Una candidatura che sembra rompere quegli schemi spesso al centro di numerose polemiche, e che negli ultimi anni hanno visto sul podio del Premio autori supportati da grandi marchi editoriali. E’ cambiato realmente qualcosa o ci troviamo di fronte ad un’apertura di facciata alla piccola e media editoria?
Anche se è prematuro parlare di un reale cambiamento degli schemi che stanno sotto al Premio Strega, e ai premi in generale, è probabile che stia venendo a galla un disagio sotterrano che esiste da diversi anni, legato all’impressione che i grandi gruppi editoriali siano sempre meno interessati alla letteratura. Le notizie che arrivano dal mondo dell’editoria si trovano, sempre più spesso, nelle pagine dedicate all’economia – fusioni, fallimenti, acquisizioni di catene di librerie, accorpamenti dei distributori. La piccola editoria, pur con tutte le sue magagne, e con la sua cronica mancanza di soldi, sta invece proponendo qualcosa di nuovo – penso ad autori come Stefano Sgambati, Fabio Viola (anch’egli candidato allo Strega), Nicola Pezzoli, Gianni Tetti, Domenico Dara…Ma se vogliamo davvero sapere se il Premio Strega si sta aprendo a questo mondo dobbiamo aspettare luglio, quando sapremo il nome del vincitore.
Il personaggio di XXI secolo sembra volerci dimostrare che nei momenti in cui tutto appare perduto non possiamo fare a meno di stringerci alle persone che amiamo, anche se queste ci hanno ferito profondamente. Può il dolore rappresentare la forza motrice che ci spinge a reagire e salvarci dalla distruzione?
Il dolore è ciò che ogni essere vivente tenta di evitare, e non credo alla visione cristiana secondo la quale si arriva alla salvezza solo attraverso una personale passione.
Per anni mi sono occupato di sistemi matematici finalizzati al controllo numerico. In questi sistemi è fondamentale l’effetto del feedback, o della retroazione, che consente di sapere quello che sta succedendo. Ecco, il dolore è un feedback importante, imprescindibile, perché ci dà la percezione della minaccia, e ci consente di allontanarci. È il termometro con il quale misuriamo la pericolosità del mondo. In questo senso, allora, il dolore può risvegliarci dal nostro torpore e darci consapevolezza dell’assedio; ma spetta comunque all’uomo trovare la forza per salvarsi.
Si parla sempre più spesso di crisi non solo dell’editoria, ma soprattutto della lettura. Esiste un modo per salvarsi da questa apocalisse culturale? Se sì, quale potrebbe essere?
La diffusione della lettura è un fenomeno relativamente recente – non vorrei sbagliarmi dicendo che è diventata un’attività realmente popolare a partire dal diciottesimo secolo, con la nascita del romanzo inglese e l’avvento delle case editrici. Nel frattempo, il mondo è profondamente cambiato, e in particolar modo sotto il profilo dell’intrattenimento: il cinema, la televisione on demand, la connettività pervasiva e senza interruzioni, i social network con il loro costante flusso di informazioni e distrazioni… È sparito il teatro, nessuno scrive più sinfonie, l’opera è morta da almeno un secolo, la scultura e la pittura sono diventate un passatempo per intellettuali ricchi e annoiati. Non riesco quindi a immaginare un mondo del futuro nel quale la lettura, e di riflesso la letteratura, abbiano lo stesso peso e la stessa importanza di quella che avevano cinquanta o cento anni fa. Il romanzo in particolare morirà – anzi, sono del parere che stia già morendo, e che in questi anni stia procedendo per inerzia, sulla spinta dei fasti del passato. Il mio vero timore è che, in una società in cui l’unico metro per misurare la qualità di un’idea è la sua profittabilità, non ci sia spazio per l’idea stessa di arte: vorrei vivere altri cento anni solo per il gusto di essere smentito.
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