Parkett, musica elettronica underground a 360 gradi
Un pomeriggio estivo come tanti a Frosinone. Con la città semivuota siamo seduti ad un tavolo metallico, uno di quelli che i grandi marchi di birra danno in omaggio ai gestori di locali e che non hanno mai tutte e quattro le gambe in piano. Il nome del locale suggerisce poca propensione all’immaginazione: “La terrazza”. Si vede un gran bel panorama che si perde tra le nubi nella lunga e assolata piana che si stende profonda fino a schiantarsi con gli ammassi burberi dei Monti Lepini.
Qui con me ci sono i ragazzi di Parkett, un duo creativo con cui condividevo le marachelle del liceo, ancora con le occhiaie post Sonar, Barcellona. Pier Paolo, riconoscibile da capelli “immorali” e un sarcasmo martellante e Simone, stile fresco e “nerd” in musica. Gli anni passano per tutti e per astri che si eclissano, ce ne sono altri che si reinventano, riprendono vigore e si imbarcano su treni che mirano alla realizzazione di se stessi. Cambiando continuamente taglio di capelli.
Parkett pare essere un progetto di cui vale la pena parlare.
Cos’è e come nasce Parkett?
Simone: Parkett è un progetto editoriale che si occupa di musica elettronica underground. Nasce 3 anni fa con interviste-video a dj internazionali, per lo più in principio era un canale YouTube. Poi un giorno mi sono detto: “Lascio stare di suonare e da giornalista e appassionato di musica mi concentro su questa cosa”. Ho messo su un sito embrionale, ho visto una risposta del pubblico e ho detto “proviamoci”. Pier Paolo si è unito dopo qualche tempo, dando una grandissima mano. Così è partito tutto.
Da un ambiente depresso come Frosinone voi tirate fuori dal cilindro un prodotto di qualità.
S: Non siamo legati né a Frosinone né a Roma, né a qualsiasi città in particolare. Devi puntare a tutta la scena, se vuoi intervistare Jeff Mills devi seguirlo ovunque vada.
Passione e lavoro: com’è congiungere le due cose? Quanto è difficile conciliare le amicizie?
Pier Paolo: Le scelte sono importanti: decidere con chi lavorare senza scendere a compromessi, seguire l’idea che hai e soprattutto non snaturarsi mai. Tante volte abbiamo dovuto dire ‘no’ ad amici, cerchi di fargli capire che non è il momento giusto. Noi troviamo collaboratori nel web, la qualità è fondamentale. Ad esempio c’è questo ragazzo che quest’anno fa la maturità che è un fenomeno, bravissimo a scrivere, con una grossa conoscenza di musica. Se tra i nostri amici c’è chi è in gamba, ben venga, ma la cosa fondamentale risiede nella qualità.
Ci si campa di sola passione?
P: È difficile per il contesto attuale dove l’arte di nicchia è valorizzata poco. Ti devi fare un culo così e ti devi allargare il più possibile. A volte non hai nemmeno due soldi in tasca però ripaga, magari non hai subito riscontri economici però piano piano ti si aprono orizzonti nuovi.
Entriamo un po’ nella vostra filosofia. In questo articolo di Andrea Nerla “I generi musicali sono una cazzata”, il ragazzo maturando di cui si parlava pocanzi asserisce come sia abbastanza anacronistico parlare di generi musicali nel 2015. In un altro articolo, preso da uno studio dell’Observer, affrontate la musica underground partendo da una componente forte della sua atmosfera: la droga.
S: Sì, quello è stato uno dei primi articoli dove abbiamo deciso di prendere una parte. Ci siamo schierati, in effetti è difficile ormai definire i generi musicali, ogni tanto abbiamo una sorta di editoriale in cui diciamo quello che pensiamo. Cento volte diamo la news, una volta diciamo la nostra.
P: Noi cerchiamo di informare. Uno vede solo la festa ma non vede rischi e sudore dietro e allora è giusto parlare non solo di musica ma anche di tutto ciò che la circonda: in Olanda durante i dj set ad esempio l’acqua la passano gratis perché magari il pericolo più grande, più che la droga in sé, è la disidratazione. Allora più che parlare solo di droga si affronta il discorso in maniera più ampia, senza cadere nella banalità o peggio nel bigottismo.
Il vostro sito è rivestito di una grafica accattivante ed articoli semplici ed immediati, come il concetto che trapela da “Perché amiamo la musica techno”.
P: Per noi l‘ambiente, lo spirito della musica sono poesia che cerchiamo di trasmettere a chi legge. Vogliamo che chi ci legge si ammali del nostro stesso male.
Simone, te sei un giornalista e dj: quando influisce questo su Parkett? C’è un sito che vi ispira?
S: Magari capisco meglio alcune dinamiche: quando usare i termini giusti o il titolo giusto, o almeno ci provo (ride). La professionalità vince sempre. Non ci affidiamo mai a label discografiche: le agenzie di comunicazione sono le nostre fonti. Il taglio della news è comunque sempre nostro ma siamo attenti a tenere fuori la nostra opinione. Vogliamo che i nostri lettori siano indipendenti in questo e che si costruiscano una loro ‘dimensione’ su un determinato argomento senza influenzarli.
Parliamo di una serata da Parkett: com’è sul campo intervistare gli artisti? Quante volte tu e Pier Paolo vi mandate a fare in culo?
P: Inimmaginabile. A volte ti trovi ad intervistare artisti che non avresti mai immaginato di conoscere. La prima intervista fu a Rebekah e sinceramente mi bloccai, non sono fatto per stare di fronte le telecamere. Dopo di lei abbiamo cambiato modo di lavorare infatti, da campo aperto ora facciamo primissimo piano, solo con risposte.
S: Ci mandiamo a fare in culo spessissimo. È comunque lavoro, legato al nervosismo, ma alla fine i momenti belli sono in netta maggioranza.
P: Poi si tratta di web, non siamo sempre a contatto. Un po’ come su Whatsapp con la ragazza se scrivi “Ciao buonanotte” e non metti la faccina sorridente magari lei si incazza. Simona si sa, è gelosissima.
S (sorride): Non abbiamo comunque molta scelta. Ti devi fidare di te stesso un po’. Devi contare su te stesso e sui tuoi progetti quindi c’è responsabilità.
Qualche episodio d’intervista? In situazioni borderline come vi comportate?
P: Una delle scene più esilaranti è accaduta durante un’intervista a Rødhåd: si presenta con capello rosso rasato ai lati e coppoletta. Dato che ha la barba e sta sulla cresta dell’onda, ho chiesto se il segreto del successo fosse la barba e gliel’ho pure toccata. Ci siamo trovati alle sei di mattina a ridere come pazzi per dieci minuti di seguito sul divano. Oppure questo dj berlinese che dovevamo intervistare a Roma. Ha finito alle 5, noi abbiamo insistito che eravamo lì da mezzanotte, lui gentilissimo ci ha concesso l’intervista. L’ho intervistato ubriaco, che per le conoscenze d’inglese magari non era proprio il massimo.
S: Mai perdere la professionalità però. Poi l’intervista è sempre in trasferta. Ricordo un dj che dopo il suo djset l’abbiamo dovuto rincorrere per intervistarlo, ed è stata durissima. Prima voleva mangiare poi bere, poi era ubriaco.
Serate importanti che vi hanno aperto mondi?
P: Jeff Mills e Ricardo Villalobos, mi hanno fatto capire chi dà emozioni vere. Pure se sei una macchina da guerra che ti riesce tutto, delle volte anche dall’errore viene l’emozione.
Parliamo dei competitor: cosa vi distingue da loro?
S: La costanza, sì, un’amica nostra. (Ride) A livello internazionale i siti come il nostro sono più utili per promuovere il prossimo evento piuttosto che vedere all’evento stesso. Noi invece abbiamo le mani in pasta, facciamo i servizi tutti con lo stesso taglio, seguiamo e diamo un parere della serata: abbiamo uno stile che ci distingue.
Parliamo della bistrattata Italia: che scena c’è e come vi ci relazionate?
S: Negli ultimi 4-5 anni c’è un’ottima risposta, soprattutto tra giovani. C’è un ricambio generazionale, anche per internet. La scena è migliore rispetto ad altri paesi. Se lavori con una grande agenzia di booking sei facilitato però hai a disposizione solo determinati artisti, se vai con altri ti svendi alla concorrenza. Quindi noi stiamo andando per i cazzi nostri, parliamo di quel determinato artista perché ci piace. Se ci mettiamo un mese a spingerlo magari esce fuori. Se sai fare questo vuol dire che vali. Magari Parkett serve a questo, a fare arrivare ad un pubblico più di nicchia questa passione.
Avete interazione da altri paesi e qual è la ricetta definitiva per spaccare?
S: Le maggiori interviste l’abbiamo prima scritte in inglese poi in Italiano, con condivisioni in tutto il mondo. Magari lo si paga in Italia perché il livello d’inglese non è buono ma il futuro sarà quello, è una scelta editoriale che ti apre altre strade. Comunque chi si rapporta alla scena, techno nel nostro caso, vive in un ambito di nicchia quindi quando raggiungi quel numero devi trovare il modo di fare un passo in più.
Quindi qual è il vostro punto d’arrivo?
S: Come una grande multinazionale, il punto d’arrivo si raggiungerà quando Parkett non si saprà nemmeno più di dov’è. Non si dovrà sapere che è una webzine italiana. Non si dovrà sapere chi ci lavora alla base, dovrà essere un dettaglio. Quello è il punto di arrivo, l’abbattimento delle barriere.
P: La scena è aperta, la lingua ufficiale è l’inglese. In Italia cerchiamo di coinvolgere i partner che hanno subito creduto in noi, con queste organizzazioni ancora ci lavoriamo perché siamo quelli dell’inizio. Il territorio è una componente mai presa in considerazione, se merita lo consideriamo altrimenti non ci pensiamo. Non vogliamo essere un minestrone che sa di questo e di quello, vogliamo essere Parkett. internazionali e inconfondibili.