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Piano A di Jacopo Nacci

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di Jacopo Nacci

Il commissario Luca Palermo ha la mano sinistra sul volante, con la destra si colpisce la fronte; si dà dello stupido, scuote il capo e non riesce a trattenere un sorriso. È un tardo pomeriggio di ottobre, la Yaris fila sull’asfalto perfetto di una strada di periferia. Attorno il tramonto getta un velo rossastro sul cemento nudo che chiude i terrapieni, sui blocchi forati, sulle gru e i caterpillar, sui nastri di plastica tesi da una spranga all’altra, che vibrano al vento leggero. Ogni tanto si leva un palazzo già realizzato, un supermercato dalla sigla sconosciuta, un’edicola dispersa nel nulla.

Palermo scuote il capo mentre ripensa alle parole pronunciate da Giancarlo Giliotti e Maria Montesi tre mesi prima.

«Io queste cose, stare in televisione, parlare del dolore, non le so fare», aveva detto Giliotti, «non le ho mai rette quando le facevano gli altri, non le capivo».

«Non siamo stati capaci di andare ai telequiz per provare a campare, s’immagini lei, Commissario» aveva fatto la moglie.

«Però», aveva aggiunto Giliotti allargando le braccia, «se serve a far appassionare quanta più gente possibile alla storia di Franci, lei capisce: è questione di vita o di morte».

E il commento amaro di Giliotti a una settimana dall’annuncio della sparizione del piccolo Francesco, quando il sindaco, sull’onda della furia e della paranoia montante, aveva fatto radere al suolo il campo rom: «Maria e io non avremmo mai immaginato una roba del genere», gli aveva detto Giliotti sottovoce, sinceramente addolorato, «è una guerra tra poveri».

Illustrazioni di Jody Daunton

Perché una guerra tra poveri? aveva pensato Luca Palermo, e perché dovevano immaginarlo? Ma la domanda gli era rimasta nella mente un istante, erano giorni troppo convulsi per prendersi la briga di analizzare le fisse ideologiche di un padre sconvolto, che aveva tentato di arginare quella deriva, ma i cittadini la volevano, e il più l’aveva fatto quel giornalista locale mezzo alienato, quel Ferri, un esagitato che scrive ovunque in caps lock fury. Un mitomane: due mesi dopo la sparizione aveva messo in piedi la campagna di raccolta finanziamenti per pagare siti e giornalisti, diffondere la notizia, la foto di Francesco Giliotti, sempre quella: i boccoli, la bocca aperta, il bavaglino bianco. La faccenda Ferri puzzava, l’informazione è roba che si moltiplica da sola, quanti soldi ha fatto via tasto Donate? Cittadini ordinari, ricchi filantropi, fondazioni. Una sera Giliotti gli aveva chiesto «Gli state addosso, vero?». «È uno», aveva detto Palermo. Giliotti aveva risposto: «Vedrà che lui non c’entra. Abbiamo la password del PayPal, è lo stesso in cui versiamo i gettoni presenza per le trasmissioni tv o radio. È tutto sotto controllo, so per cosa usa i soldi, ci notifica tutto, è una brava persona; sono tutte brave persone, si commuovono quando leggono l’Ansa, quando vedono le immagini», e Palermo aveva percepito una nota di paternalismo nella voce e un lampo di disprezzo negli occhi; «del resto lo avevamo previsto» aveva aggiunto Giliotti. E su Ferri non era uscito niente, nemmeno soldi usati per canali di ricerca clandestini, per aprire porte e bocche nei giri brutti. Ferri era davvero solo un pazzo che deve sentirsi parte dello spettacolo. E che quel pomeriggio lo aveva chiamato con voce contrita e lo aveva fatto scattare sull’auto.

Giliotti e la Montesi lo conoscevano già: grafico lui, informatica lei, avevano realizzato il sito personale di Ferri prima ancora di trasferirsi qui dall’Umbria. «Così abbiamo conosciuto la gente di qui, ci piaceva, e abbiamo trovato una casa che costava molto meno, sperando di trovare anche nuovi lavori», aveva raccontato la Montesi durante uno dei loro primi colloqui, all’indomani del fatto, e Palermo ricorda il modo in cui, in quel momento, Giliotti l’aveva abbracciata. Lì, per la prima volta, aveva pensato: è stata lei, ha ucciso il figlio, e lui la ama, la ama alla follia, sa che è malata e la sta coprendo. Poi si era detto no, è uno stereotipo. Aveva mai dato segni di squilibrio? Due giovani disoccupati che abitano con un bimbo piccolo in un quartiere dormitorio, come poteva non aver dato segni di squilibrio? I vicini parlavano di una madre strana, schiva, molto protettiva: pare che, nei primi due mesi che avevano trascorso lì, prima del fatto,nessuno abbia mai visto il bambino. Lo sentivano però, e sentivano lei. «Sì», aveva replicato la Montesi al commissario Palermo, spazientita, «qualche urlo l’avrò pur tirato, ero nervosa; già un lavoro all’anagrafe non era quello che volevo, ma siti e software non riesci più a venderli, e hai un figlio, dici: mi sta bene, ma in fondo ti senti le ali tarpate; poi perdi pure il lavoro, e anche tuo marito fatica; certo che ero nervosa».

Illustrazioni di Jody Daunton

L’indagine di Palermo era partita dal palazzo, si era allargata al quartiere, poi alla città. Le telecamere della stazione, i computer, la posta, gli account sui social network. Chi sequestra il figlio di due giovani disoccupati? E infatti nessuna richiesta di riscatto era mai arrivata. Scavava nel passato, le vendette, macché vendette, questi non hanno mai fatto male a nessuno, e il pazzo lo devi mettere in conto, e specialmente qui, pensa scendendo dall’auto, alzando lo sguardo al casermone azzurro in mezzo al quartiere Celle, una ventina di lego identici disposti a scacchiera, separati da parchi semideserti e vie con nomi di registi, e mai che andando da loro avesse incontrato nessuno sulle scale: aveva visto le porte blu tutte uguali e tutte chiuse, e da ognuna rimbombava la televisione.

Suona un campanello a caso, il portone si apre; entra, sale le scale, sfonda la porta, sa che dentro casa non c’è nessuno e sa anche più o meno cosa dovrà controllare per capire ciò che ha già capito. E infatti ora fa caso: non un seggiolone, non un vasetto; controlla le ruote del passeggino: intatte; cerca tra i cd quelli senza scritte e al terzo che mette nello stereo ecco che esce la voce di un bambino, che fa risolini, piange, chiama mamma, e ogni tanto la voce della mamma che lo sgrida, e che non è la voce della Montesi. E va al computer, Palermo, perché, se finalmente li ha capiti, questi sono di quelli che un addio te lo lasciano, e infatti il computer è acceso, basta muovere il mouse ed ecco che compare Photoshop e su Photoshop due immagini: una, a destra, è la foto di Francesco Giliotti, il bavaglino bianco, la foto di centinaia di giornali, telegiornali, siti, blog, aggregatori, di forum pieni di emoticon che piangono e invettive e saluti sgrammaticati seguiti da decine di punti esclamativi; e l’altra foto, a sinistra, è la stessa foto, ma i colori sono più spenti, sembra molto più vecchia e sul bavaglino c’è scritto Giancarlo. Giancarlo Giliotti. Geni, pensa Luca Palermo, cazzo di geni, si ripete mentre trascina la sedia da sotto al tavolo e ci si lascia cadere. Muove il mouse, fa comparire la barra di spazio. Chrome è aperto. Allarga. È la pagina di PayPal: i soldi, tutti i soldi, 124.589 euro, trasferiti.

Nello stesso istante la mano destra di Giancarlo Giliotti raccoglie la valigia dal rullo dell’Aeroporto internazionale Juan Santamaría, ad Alajuela, in Costa Rica, la mano sinistra stringe la mano di Maria Montesi. Si guardano, sorridono, si baciano.

 

 

Testi di Jacopo Nacci. Illustrazioni di Jody Daunton.

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Jacopo Nacci vive a Pesaro. Nel 2011 ha pubblicato Dreadlock (Zona, Collana 9Volt), nel 2012, con la Cooperativa di Narrazione Popolare, Lo zelo e la guerra aperta. Entrambi i testi sono coperti da licenza Creative Commons BY NC SA, e scaricabili gratuitamente. Il suo blog è yattaran.com.

 

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Scrittori in ascolto, se volete mettervi alla prova mandateci i vostri racconti saranno selezionati dal nostro Patrizio D’Amico, scrivete a: testicitrolu@gmail.com.      

Patrizio D'Amico

scritto da

Questo è il suo articolo n°73

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