Richard Mosse vede il mondo in rosa
Ok, scrivo su questo sito da qualche tempo ormai, e credo di potermi iniziare a permettere certe confessioni. La verità è che mi sono sempre piaciuti da morire i film della Disney, mi sono piaciuti e mi piacciono così tanto da aver oramai la consapevolezza di aver dedicato la mia vita ai valori da essi ispirati. Forse questo fa di me uno xenofobo, un conservatore, un simpatizzante del primo movimento nazista, un maniaco sessuale devastato da anni di cazzi nascosti tra i fotogrammi, ma è così ed è ormai troppo tardi per tornare indietro e passare le giornate ad attaccare le fotografie degli attaccanti del Pescara su un album.
Fatto sta che una delle immagini archetipe della mia vita, una di quelle foto che mi passeranno davanti mentre starò precipitando da un vulcano in eruzione abbracciando quel nemico che stava per distruggere il pianeta terra, saranno degli elefanti rosa. Gli stessi che, distorti e liquidi, si parano davanti ad un piccolo Dumbo ubriaco mentre suonano strani strumenti a fiato. Un’immagine devastante, la figura dell’irrazionalità. Il Dionisiaco in VHS. Tenete ferma una cosa: quegli elefanti erano rosa. Tenete ferma un’altra cosa: il gatto di Alice nel Paese delle Meraviglie è rosa, ed è chiaramente un pazzo completo.
Ora, questo mi porta a dire due cose: la prima, in via del tutto preliminare, è che il rosa rappresenta per me il colore dell’assurdo. Non è un caso che le femminucce vadano vestite di rosa: il rosa è, per me, completa incomprensibilità. La seconda riguarda un’artista, un fotografo 33enne che rappresenterà l’Irlanda alla prossima Biennale di Venezia. Si chiama Richard Mosse.
Mosse è una specie di incrocio tra un reporter di guerra e un artista concettuale, e per i suoi lavori più impressionanti (Infra 2011, Enclave 2012) ha passato mesi con i militari in un paese in cui essere un militare significa essere un assassino, un genocida, uno stupratore seriale e l’incarnazione assoluta della mancanza di pietà: il Congo. Le differenze tra lui e un reporter sono che le sue foto sono fantastiche e sono fatte con una speciale pellicola Kodak chiamata Aerochrome, che in pratica rende con varie sfumature di rosa tutto quello che il nostro occhio vede verde (attenzione: immaginatevi una guerra, dei militari e il Congo e provate a calcolare quanto verde state immaginando). La stessa pelllicola, per dire, la usarono per le copertine dei dischi di Hendrix: le droghe quindi, e l’assurdo e quegli elefanti grassocci.
In effetti, la prima volta che mi sono trovato davanti le foto di Mosse ne sono rimasto impressionato. Poi ho provato a pensare a scrivere qualcosa, ho provato a focalizzare l’attenzione sulle parole migliori per descrivere ciò che stava accadendo, il motivo per cui quelle immagini potevano avermi impressionato. Bene, non riuscivo a pensare a niente, e di conseguenza non potevo scrivere niente. Non riuscivo a capire che cazzo ci fosse di bello in una guerra rosa, eppure c’era.
Ma ora state leggendo quest’articolo e seppur possa comunque restare l’ennesimo ammasso di parole vuote e utili solo a giustificarmi anni di studi universitari, comunque qualcosa da scrivere devo averlo trovato. In verità è successo che, proprio quando stavo per lasciare la mia carriera di algido cronista d’arte per buttarmi a piene mani sulle foto del profilo di Facebook di qualche tizio conosciuto per qualche ora qualche anno fa, mi è venuto in mente di provare quantomeno a leggere qualche dichiarazione di Mosse.
Che diavolo, che me lo dicesse lui quello che dovevo scrivere. Ebbene, come nelle migliori fiabe e nelle migliori dittature, così è stato. Mosse, infatti, parla della guerra in Congo come “un conflitto così patologico che è ben oltre il confine della comprensione umana”. La sua fotografia perciò, diventa “una lotta personale contro la disparità tra i miei limitati poteri di rappresentazione e l’inspiegabilità del mondo con cui mi confrontavo”.
Ho sempre trovato il rosa il colore dell’assurdo. Il mondo, nelle fotografie di Mosse, è rosa. È un mondo in cui c’è la guerra, un mondo in cui accade che ragazzini di dieci anni sparino ai genitori con un Kalašnikov per poi lasciare ai compagni la violenza delle sorelle. È un mondo in cui ci sono persone che hanno perso metà della faccia. Un mondo in cui noi ce ne andiamo in piazza ad acclamare il nuovo papa e compriamo cellulari e diamanti e gomme e benzina prodotte facendo la gente a pezzi con un machete. Il mondo che ci mostra Mosse è il nostro stesso mondo ma lui ce lo mostra rosa, perché non può permetterci l’illusione di comprenderlo, di riconoscerlo come quello che vediamo tutti i giorni al telegiornale mentre ci scofaniamo di pastasciutta.
Il mondo, nelle foto di Mosse, si manifesta per quello che è: una cosa assurda. Ad esempio, quella pellicola speciale, l’Aerochrome, nacque per scopi militari per riuscire a riconoscere meglio la conformazione del territorio ed è finita a raccontare la guerra nelle mani di un artista passando per le copertine psichedeliche e pacifiste di qualche musicista anni ’70. Il mondo è un postro strano, e non c’è un cazzo da dire che la guerra è ingiusta e che la gente soffre e non c’è da scrivere canzoni su un mondo migliore e non c’è da essere una partecipante di Miss Italia e sperare nella pace universale. Il mondo di Mosse non parla proprio, non dice niente perché non c’è nessun punto da cui iniziare a parlare. C’è solo assurdità, c’è solo un continuo e completo non-senso. La stessa mancanza di senso di popolazioni sterminate dai loro famigliari, vicini, amici. La stessa mancanza in cui spronfondava Dumbo quand’ero bambino, e quando lui provava l’esperienza di un mondo – lo stesso mondo di prima – che improvvisamente diventava completamente estraneo. L’esperienza, appunto, dell’assurdo.
Per Enclave, Infra e gli altri lavori: Eichard Mosse | sito