Rongorongo
Potrei cantarvi di Rapa, di Ta’u, di Mama, della caccia all’alcione dai piedi blu e dei morti che veneravamo, della palma, del sale o di Mao dalla lunga pinna che solca l’oceano irto di denti o di chi con le lunghe canoe venne a nutrirci e a rapire la nostra terra dagli antenati Lapit, ma questo potete vederlo in storie e sogni che dipingono il nostro popolo.
Parlerò di noi, di come siamo arrivati a mangiarci, da soli, della fame con cui siamo nati e che ci ha deperiti. Una ricca e vasta isola abitavamo, ricca di genti e d’alberi di animali e fiumi, da un capo all’altro si dipartiva il mare e moriva il sole da un punto all’altro, avevamo una storia di ere precedenti che ci avevan guidato verso lo splendore, la ricchezza, la podestà.
Le genti eran tante da non conoscersi, dedite a tutte le arti e i mestieri, dagli agitatori di mazza ai servi del sangue, dalle donne gioiose agli schiavi sudati nei campi di taro ognuno faticava per il sole e il sangue, per le genti e il piacere, per la Fame. Crescevamo a dismisura fino a superare il limite del taro, del cocco, del mare, delle uova di alcione e dei rari animali che continuavamo ad allevare, fino a che il mare ci spinse oltre a cercare, la Fame ci spinse oltre. Valicando i limiti dell’umano, dell’immagine dell’umano.
Tu portatore di mana che leggi questi segni dimenticati sappi chi siamo stati, che abbiamo valicato il vasto mare fino a qui per venire a morirci, a consumare la terra, l’isola di cui sono l’ultimo abitante, dopo aver mangiato i miei cari e perse le forze, segno su questo vecchio Moai questi segni per dirvi, non fate il nostro errore, non calpestate la madre, non strappatene impunemente i figli dal grembo, perché questo grande spazio blu che mi rinchiude sarà la trappola dell’uomo, se pochi di noi distruggemmo Rapa la rigogliosa finendo per distrugger noi stessi. Il grande signore di Papeete lo sa che queste belle spiagge bianche e questo mare di corallo sono solo una rosea tomba, dopo che non lasciammo crescer più gli alberi per mangiarli, la pesca finì, mangiammo le radici e ogni singolo pezzetto di foglia, facemmo della fame il nostro idolo, il nostro unico sogno.
L’avidità non lascia spazio all’uomo, si finisce per diventare il Loa di quest’isola, di questo mondo blu, qui a Rapa saremo lo spirito che guarda all’oltre, al sogno perché il domani è già morto.
Segno sul Moai perché sappiate, segno sul Moai perché non finisca come qui.
Questi righi tradotti dall’intraducibile Rongorongo provano a guardare avanti di cinquant’anni da oggi, se non cinquanta, cento e si chiedono e vi chiedono cosa mangeremo? Dove cerchiamo il nostro divenire, dove lo attueremo?
Gauguin venne alle Marchesi per dipingere un quadro il cui titolo è il riassunto della civiltà da quarantamila anni a questa parte: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Testi di Martino Cuozzo e disegni di Martina Caschera per Ziguline.