Siamo stati a Digitalife
Ragioniamo per assurdo, facciamo finta che si possa giocare con l’arte. Che la si possa distinguere in tre ceppi: l’arte che ha un predominante carattere di intelligenza, quella che quel carattere ce l’ha nella sensibilità estetico/poetica e quella che lo trova nell’innovazione. Ora, facciamo che questi tre tipi immaginari non debbano restare ancorati ciascuno ad una particolare tecnica, ma siano piuttosto tre differenti tipi di attitudine verso il lavoro artistico. Ecco, Digitalife è forse uno dei fenomeni recenti più autorevoli in ambito italiano a mostrarci come fare arte con le nuove tecnologie non significhi per forza riuscire ad eccitarsi davanti ad un linguaggio di programmazione.
In effetti le opere presenti quest’anno sono, restando all’assurdità della teoria dei tipi dell’arte, del tutto trasversali, poco riconducibili ad una possibile linea comune. I video ‘apnetici’ di Giuseppe LaSpada e la coreografia di Saburo Teshigawara, che comunque ha il merito di farci sentire il 3D come ciò che in effetti esso è, ossia qualcosa di profondamente ‘irreale’, hanno poco a che fare con l’ologramma di AbLimen, disegnato dalla traiettoria dei visitatori della mostra (seppure quest’ultima idea mi sia sembrata più un escamotage per l’ologramma stesso), o con la metamorfosi elettrocardiogrammatica delle nature di Kurokawa. E, allo stesso modo del linguaggio umano stesso, si sono prepotentemente rivelati irriducibili ad una categorizzazione unitaria; per assurdo, Digitalife ci ha detto che il mezzo non sempre esaurisce il messaggio.
In fondo era inevitabile che gli spettatori di Digital Life, una volta usciti dalla mostra, facessero i conti con il buon vecchio Marshall McLuhan. L’interazione e la dimensione ludica di scoperta, sono state garantite da un uso impareggiabile della tecnologia che però nulla ha potuto con i limiti spaziali e con la conseguente confusione sonora che si avvertiva passeggiando fra le intallazioni. Una volta allegeritasi e spogliatasi di tutto il suo freddo grigiore la tecnologia ha potuto mostrare, come nel caso di Daniele Spanò, di poter essere fervida energia di progettualità e di articolazione di sentimenti ed emozioni umane, troppo umane.
Lontane dall’idea che siano solo immagini di sintesi, entità numeriche e computazionali, i linguaggi digitali si sono mostrati ancora una volta strumento e completamento della natura del pensiero umano e all’affezione verso oggetti fisici. Ci ha però detto anche un’altra cosa: che, come forse sempre nella storia dell’arte, le opere migliori sono quelle che, a chi se le guarda, non presentano nessun carattere predominante se non quell’assurdità stessa di cui siamo fatti noi che, quando sentiamo i nostri vicini di casa litigare, non possiamo non attaccare l’orecchio all’intonaco. E così faremmo, mostra 80e11thSt di Marclay, davanti alla porta dello studio newyorkese di Duchamp, con la sola differenza che là ci troveremmo spiati a nostra volta. Tanto assurdi da esserci ridotti, dall’eccesso di rappresentazione del naturale con l’artificiale, a fare il contrario: come la macchina di Felix Thorn, un computer che suona musica elettronica stimolando percussioni reali. Se, sempre per assurdo, fosse del tutto vero che i cosiddetti (ancora?) new media consentano una maggiore estensione tattile e percettiva del corpo, proiettandolo nell’ambiente e riuscendo addirittura ad interagire con l’interiorità dell’uomo è pur sempre e altrettanto vero che questo continua ad essere il contenuto di una costante opera di mediazione tra scenari vecchi (desideri istintuali e vecchi vizietti sociali) e la nuova/vecchia frontiera dell’immaterialità.
La tecnologia non va celebrata né demonizzata. È parte dell’uomo, della sua cultura, del suo inconscio che sente il bisogno di manifestarsi, attraverso un mood. Desiderio appagato, ultimo esempio, dal progetto “The Future Mood” del CATTID (Centro per le Applicazioni della Televisione e delle Tecniche di Istruzione a Distanza) dell’ Università La Sapienza di Roma. Tanti soffioni, simboli di leggerezza e volatilità, a rappresentare la dispersione in mille rivoli di un’idea, di un desiderio, e più in generale del proprio self messo in rete e condiviso con le altre persone che hanno visitato la mostra.
Quello che ci dice Digitalife, in ultima analisi, è che la nostra vita, seppur digital – life, resta la stessa.
Testo di Marianna Fazzi & Stefano Pontecorvi