Fifty Kids di Elliott Erwitt
C’è un libro di un tizio che si chiama Stanley Cavell che, ad un certo punto, dice: “[…] nothing is more serius business for a child than knowing it will be an adult, and wanting to be. Wanting to do the things we do – and knowing that it can’t really do them yet”. Il fatto è che, i bambini somigliano per molti versi agli adulti, ma non lo sono. Hanno qualcosa come un’aura misteriosa. Molti affermano che essa è rappresentata dal loro essere innocenti, ma io non credo sia ninte del genere. L’innocenza esiste solo laddove esista una consapevole colpa e questo non è pienamente il caso dei bambini, che non credo abbiano né l’una né l’altra (almeno, non come ce l’hanno gli adulti).
Immagino che quel mistero che rende i bambini attraenti – attraenti anche per chi non è un prelato irlandese, intendo – sia simile a quello che accade quando le nostre comunicazioni riescono ad andare davvero a buon fine: tanto i bambini stanno prima del linguaggio, tanto la nostra possibilità di farci capire va oltre qualsiasi modo determinato di esprimerci. Eppure quei bambini fanno quello che facciamo noi, crescono, ci seguono senza aver studiato come fare da nessuna parte. A volte anche la persona cui spieghiamo il nostro punto di vista ci segue e noi, lo sappiamo che non dipende dal nostro spiegarci a puntino. È un mistero, un mistero che può accadere a meno che non stiate tentando di difendere Giuliano Ferrara o la trilogia di Twilight. In quel caso c’è solo incomunicabilità.
A me piace fare i pipponi, però sono onesto e dico sempre quando il pippone finisce. In questo caso è finito e mi è servito ad introdurre la splendida mostra di Elliott Erwitt Fifty Kids, al Palazzo Incontro di Roma. La mostra presente in effetti 50 fotografie di uno dei più grandi del panorama fotografico mondiale. 50 fotografie espressamente dedicate al tema dei bambini. Che palle, direte voi. E invece no, e ve lo dice uno che pensa che i bambini siano come i cani: ad ognuno dovrebbe piacere il suo e non vedo il senso di accarezzare quello degli altri.
La mostra non rompe le palle perché Elliott Erwin non ritrae i bambini nella loro ingenuità, o nella loro povertà, o nel loro essere i fiori più indifesi in un mondo di adulti cattivi, pippaioli e bacchettoni. La cosa che più mi ha impressionato dei ritratti di Erwitt è il loro ritrarre bambini in una estrema e delicata riconoscibilità. Mi spiego: guardare i bambini di Erwitt non è guardare cose che devono per forza fare pena, o indurre a compassione, o ricomporre il cuore di bianche principesse sui piselli e riportarlo ai momenti in cui leggiadre rompevano il cazzo ai rispettivi padri per farsi comprare le figurine di Winnie the Pooh.
Guardare i bambini di Erwitt è guardare delle espressioni, dei comportamenti, delle posizioni che sono incredibilmente vicine a quelle degli adulti che li circondano eppure incolmabilmente differenti. In quei bambini è evidente il loro potenziale di adulti, è evidente quel mistero che accompagna da sempre l’umanità nel permettere alle persone di comprendersi e di comunicare. E’ evidente il potere dell’uomo di capire l’altro uomo perché quel potere stesso è preso ed immortalato nel suo primo manifestarsi, in uno stadio in cui non è confondibile con la semplice possibilità di chiacchierare sulla chat di facebook. Quel potere, nei bambini, si manifesta nel suo naturale carattere incomprensibile eppure fondamentale per ogni comprensione. Quel potere, nei bambini di Erwitt, resta degno del mistero che è.
Credo che essere un buon fotografo non significhi fare belle foto. Significa piuttosto raccontare, attraverso un’insieme di scatti, una storia, una filosofia, un pensiero, una sensibilità. Significa comunicare senza parole, comunicare qualcosa di riconoscibile eppure mai definibile.
Erwitt, in questo, è davvero il maestro che la sua biografia su Wikipedia presenta: con le sue foto crea un unico grande disegno in cui noi tutti dovremmo riconoscere le nostre possibilità empatiche, il nostro riconoscerci a vicenda. Lo fa senza usare frasi, proprio come i suoi bambini.
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