Siamo stati a Fluxus Biennal
Siamo stati a vedere la rassegna Fluxus Biennal all’Auditorium Parco della Musica la scorsa settimana, un omaggio a quel gruppetto di fanatici neodadaisti formatosi nel 1961 con lo scopo di dare vita ad un esperimento in grado di mettere insieme arti visive, poesia e musica senza fare confusione. Quei fantastici ragazzi ci sono riusciti a loro tempo e ora ve li vogliamo riproporre a distanza di quaranta anni per vederne l’effetto con questa mostra che si sta svolgendo nella delizia architettonica di Renzo Piano.
L’evento è stato curato niente popò di meno che dal brontosauro dell’arte Achille Bonito Oliva e terminerà il 31 dicembre 2011. Due anni di installazioni video inauguratesi nel gennaio dello scorso anno con una mostra in onore dell’ideatore del gruppo, quel George Maciunas che dalla Lituania giunse a Wiesbaden per organizzare il primo Fluxus Festival della storia del gruppo nel lontano 1962.
In queste poche righe vogliamo ricordarvi invece Nam June Paik, un artista che non ha bisogno di presentazioni, soprattutto per gli appassionati di video arte visto che ne viene considerato il pioniere a tutti gli effetti; il primo uomo difatti che ha osato mischiare le arti come frutta in un frullatore ed il risultato ce lo gustiamo volentieri ancora oggi, nell’esposizione dedicata proprio all’estro di quest’uomo d’oltreoceano scomparso qualche anno fa.
Negli spazi espositivi allestiti per la Fluxus Biennal, visibili anche dalla strada, le realizzazioni di Nam June Paik catturano lo sguardo dello spettatore per condurlo in un posto che si lascia alle spalle il rumore della strada e le chiacchiere dei fannulloni borghesi domenicali frequentatori del caffè dell’Auditorium.
La biografia di Nam June Paik, su un supporto bianco scarno appeso alla parete, contrasta con la creatività dell’artista che si rivela appena giriamo lo sguardo dalla parte opposta dove compaiono due installazioni: “Homage to Pythagoras”, ovvero un tributo al filosofo greco, e “Cage in cage”. È soprattutto quest’ultima a prendersi gioco della nostra curiosità. Da una grande gabbia bianca appesa ad un filo che proviene dal soffitto l’artista ha rinchiuso uno schermo da cui proviene la voce che si sente entrando nelle sale: un video su un piccolo monitor che risuona da dentro una gabbia, una prigione in una prigione, come le bambole matrioska, forse un monito alla censura o forse una cella di isolamento per chi non può esprimere la propria creatività ma che comunque ha il coraggio di farsi sentire almeno.
La creazione di Nam June Paik è in realtà un omaggio ad un suo grande amico, John Cage, esattamente lui il musicista statunitense che ad un certo punto della sua carriera si mette in testa di diventare un artefice degli happening che iniziano a svolgersi nei primi anni 50 e contemporaneamente un cultore della filosofia zen di cui lo stesso Nam June Paik sembra essere tanto attratto. E così difatti, intanto che noi ci perdiamo a dare una interpretazione all’uomo che parla dentro una gabbia, un Buddha silente si concentra di fronte ad una candela accesa e per un attimo ci dimentichiamo che quello che stiamo cercando si trova altrove. Il connubio tra occidente ed oriente incarnato dall’artista sembra svelarsi però in un altro posto. Che c’è ancora da scoprire? In una sala oscura delle tv mandano in onda filmati delle installazioni dell’artista in ogni luogo dove si è esibito, sovrapposizioni di filmati e soggetti che interferiscono l’uno con l’altro in un alternarsi di visioni che creano un effetto spirale negli occhi e nella mente di chi osserva e ascolta.
Avvertenze generali: la visione delle installazioni è consigliata anche ai fannulloni domenicali.