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Siamo stati alla mostra: A brief history of pain

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A brief history of pain è il titolo della mostra dell’artista Gianni Politi allestita presso i locali della CO2 Gallery di Roma, un posto dove l’aria profuma di creatività post-industriale tipicamente berlinese. La mostra, conclusasi lo scorso 5 marzo e curata da Gianluca Marziani e Maria Letizia Bixio, è un concentrato di immagini e presenze morfologiche realizzate attraverso gesso, disegni e pittura su tela, un percorso espositivo che si traduce in percorso conoscitivo di un frammento esistenziale del suo creatore. A brief history of pain è una raccolta di opere che intendono rappresentare agli occhi dello spettatore la metamorfosi della sofferenza in arte, un labirinto di emozioni che si scaglia e si imprime sulle superfici utilizzate dall’artista per esprimere se stesso. Persa nello spazio espositivo ho visto i miei sentimenti coinvolgersi e assottigliarsi, imprimersi sui soggetti scelti dall’artista per mostrarci il suo divenire nel tempo.

foto di Giulia Nobili

Sembrava di trovarmi in un laboratorio di scienze dove si collezionano specie rare di esseri animali che vivono in un mondo remoto o in posti lontani dalla nostra esistenza quotidiana. Con la stessa curiosità di un bambino in cerca di emozioni, mi sono avvicinata al limite trasparente che separa l’esistenza fisica da quella emotiva e ho scoperto il flusso della vita che ricomincia a scorrere dopo un momento di stasi.
Gianni Politi, classe ‘86, racconta la sua esistenza in 27 teche entomologiche contenenti farfalle di Rorschach ad inchiostro, ognuna delle quali rappresenta i giorni postoperatori, una raccolta di immagini che formano il diario clinico ed emotivo dell’artista.
Chiunque si avvicini alle creazioni esposte vede farfalle racchiuse in una scatola di vetro da cui risplende la forma e la solitudine di un mondo interiore farcita da inadeguatezza verso il mondo esterno che corre e fa scorrere il tempo, la fugacità della vita che cattura ogni pensiero nella sua corsa, ogni attimo di armonioso contatto con gli esseri viventi che ora si prostrano di fronte all’inesorabile bellezza di queste creature.

foto di Giulia nobili

Alcune svaniscono, altre resistono nel loro colore scuro che le distingue dal resto del mondo, un segno tangibile del loro esistere, nonostante tutto, nonostante il dolore e la convalescenza dai sentimenti. La più grande di esse, una tela gigante che cattura lo sguardo dello spettatore per la maestosità del soggetto rappresentato, ci fa strada lungo il percorso di conoscenza dell’artista, le sue ali sono forbici, esattamente la pinza Schroeder, lo strumento usato in chirurgia per estrarre il feto: Gianni Politi mostra al mondo che guarda attonito la bellezza di un corpo che nessuno strumento è in grado di mettere a tacere. One day my suffering will fly high, titolo dell’opera, è la massima rappresentazione dell’universo interiore dell’artista, un connubio tra bellezza e dolore che solo l’arte è in grado di forgiare. Il percorso espositivo continua con From subject to object, ovvero due vetrine da museo delle scienze che contengono dei calchi in gesso raffiguranti la sofferenza corporea e la sua trasformazione in creatività artistica, quella di Gianni Politi che uscendo dalla sua crisalide di dolore torna alla luce del mondo e all’umanità che lo circonda.
Per tutta la visione della mostra mi sono sentita pedina di una scacchiera i cui giocatori sono l’arte e la vita, due presenze affascinanti ma anche due forze oscure che catturano e trasformano la nostra esistenza nel mondo. Mentre chiudevo gli occhi sentivo silenzio intorno e silenzio dentro. La presenza di qualsiasi forma di rumore emotivo come il dolore mi dava conferma dell’esistenza dell’eternità.

Eva Di Tullio

scritto da

Questo è il suo articolo n°178

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