Terra desolata, mostra di Claudio Lovecchio
L’ambiente dell’uomo all’inizio del ventunesimo secolo. Non servono le parole. Sabbia. Mattoni. Cemento. Materiali da costruzione. Per strade, case, non luoghi. Scenari consueti. Sono di proprietà comune. Un vissuto condiviso. La responsabilità è collettiva. Noi siamo ritratti in queste fotografie anche se i nostri volti non compaiono. Noi. Tutti. Nessuno escluso. L’ambiente che il genere umano si è costruito nel lungo corso del tempo è fatto di centri storici ibernati nella glassa del restauro e di territorio deturpato dal consumo.
Il bello è visibile e motivo d’orgoglio. Il brutto è abbandonato all’oblio del non detto, in nome dell’ansia da produzione. Meglio non vedere. E non dire. Perché le parole possono fare rumore. Qui, il fotografo coglie l’invisibile. Invisibile e scomodo. E presta la macchina fotografica all’inespresso dolore della parola. Alle immagini affida la disperazione di ciò che non diciamo perché non possiamo.
La pellicola cerca tracce umane e le ritrova abbandonate alla memoria di asfalti sconnessi sotto metallici cieli in cerca di nuvole.
Si ferma a lato di strade deserte. Tira fuori la disperazione dal manicomio della vita e la chiama per nome. Si inginocchia tra i rifiuti delle discariche del quotidiano e incarcera nella drammatica fissità della pellicola la terra desolata di un pezzo d’Europa, di una parte dell’Italia del nord nel XXI secolo. Alla fine del racconto: una rete e le nuvole, la sabbia a distendersi sotto un cielo mosso di speranza. Forse la partita non è finita.