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The Pains of Being Pure at Heart, live at Astoria

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Con un nome del genere, potresti pensare di primo acchito che siano un nuovo gruppo emo. Invece quando ho letto la recensione di Belong dei The Pains of Being Pure at Heart (catalogato come best new music da Pitchfork) mi prende un colpo al cuore: paragonarli ai The Jesus and Mary Chain?

Prima reazione: è come prendere Fabio Volo e paragonarlo a uno scrittore qualsiasi. Va bene tutto, ma non siamo blasfemi suvvia. Però è stata la pulce nell’orecchio che mi è servita per farmi andare a prendere il disco e ascoltarmi un po’ questi giovini newyorkesi e capire da dove arriva questo paragone. In effetti, qualcosa del genere lo sviluppano, non voglio dire che abbiano riesumato lo shoegaze nel 2012, sarebbe anacronistico, ma ci hanno provato e il tentativo è un po’ più pop e preso bene per quel che mi piace, ma, come mi hanno confermato, alla fine anche i The Jesus and Mary Chain erano pop, a modo loro. Oltre ad avere un nome dalla lunghezza indecente che li accomuna entrambi. Mi serve però una conferma che non siano fuffa: devo vederli dal vivo e vedere se ci sanno fare con le chitarre.

The Pains

L’Astoria ti assicura che riescono a “scaldare il mio cuoricino” o “alleggerire la mente appesantita con un vortice di romanticismo”. Il contrario magari, se è fatto bene mi dispererò e vorrò solo chiudermi in cameretta a piangere. Non vedo l’ora.

Da quando vivo nel quartiere diventato più fico di Torino ci sto guadagnando varie cose, tra cui la possibilità di vedermi concerti a meno di 50 metri da casa. Potrei scendere in pigiama. Ma no, questa volta non vi decanterò dei loro magnifici long island (anche perché sono reduce da un venerdì sera innaffiato da un po’ troppi bicchieri), bensì di come sia piacevole scendere sotto casa, bersi una birra e godersi un gruppo che ti piace dal vivo.

The Pains

Forse la birra me la son goduta troppo, dato che scendo nel Basement (completamente rinnovato, ora non ti senti più un’impasticcata con le strobo quando entri, ma le lucine carine sullo sfondo a mo’ di cielo stellato ti fanno sentire molto romantica) quando il gruppo spalla, i Flowers, stanno finendo l’ultimo pezzo. Arrivo comunque in tempo per capire che:

– la cantante ha una voce paurosa

– il chitarrista è il prototipo dell’indie inglese ciccione con maglione largo

Se googlate Flowers v’immergerete in una missione che farebbe invidia a un qualsiasi gioco di ruolo. (Se aprite il primo risultato vi accoglieranno una ventina di sorridenti componenti di un’orchestra, vi metteranno subito di buonumore ve l’assicuro). Quindi, attacchiamoci al tram e aspettiamo che si facciano conoscere di più.

The Pains

Parliamo invece dei The Pains of… Anch’io provo dolore, non solo perchè ho un cuoricino d’oro che il video di Roger Sanchez in confronto è una barzelletta, ma perché mi stufo a scrivere il vostro nome per intero. Ma fatemi soffrire un po’ anche con le vostre canzoni strappalacrime dai.

Raggiungo una mia amica che so essere in prima fila, tutto ciò mi agevola il lavoro con le fotografie in cambio di un orecchio. Quando al cantante salta una corda della chitarra mi rendo conto che probabilmente il mio orecchio destro o s’è perforato o comunque avrà lesioni permanenti.

Prima di descrivervi le mie sensazioni vorrei porre l’attenzione su tre particolari per cui io e la sopra nominata ragazza abbiamo riso per un’intera serata:

– il bassista in realtà è identico a Federico, il violinista dei (ahinoi defunti) My Awesome Mixtape.

– c’è un componente strano che apparentemente non fa altro che fingere di suonare la seconda chitarra. Soprannominato lo stagista, supponiamo abbia fatto lui le copie delle scalette per tutti. Si rivela essere il batterista dei The Drums, e sembra non sapere nemmeno lui di come sia finito lì.

– la tastierista risulta più una presenza fantasmagorica, non solo non si vede, ma raramente la si sente.

The Pains

Ok, a parte questi dettagli il live è stato sorprendentemente positivo. Ben bilanciata la scelta dei pezzi, un bel mix tra “adesso mi butto a terra e piango” e “la vita alla fine dei conti è bella perché sono innamorato”, tra l’altro proposti con una maggiore attenzione alle chitarre piuttosto che alle tastiere (che tanto non si sentono).

Ecco, il problema principale dello stare sotto una cassa e farti tranquillamente rompere un timpano è che non sai mai con certezza se in realtà l’ultimo tizio in fila al bar in realtà si sta godendo tutto alla perfezione. Per esempio la voce della tastierista, questa sconosciuta. L’ho sentita uscire giusto un paio di volte per pensare che magari sarebbe stato il caso non averla sentita per nulla, sembrava quasi un demone. Ma dal disco è così soffice. Potrei chiedere a voi che eravate laggiù in fondo, sollevatemi quest’amletico dubbio. Si sentiva bene?

L’apice lo toccano comunque con Come Saturday e A teenager in love. Lì ho anche provato tenerezza vedendo una coppietta di fianco a me abbracciarsi e cantarsi dolcemente a memoria le canzoni. Quanto romanticismo, decido di abbracciare la mia macchina fotografica e dirle che io e lei staremo sempre insieme.

The Pains

A fine concerto il leader annuncia che vuole uscire con noi, noi inteso tutti noi (sold out) che siamo presenti, e difatti più tardi li troviamo persi nel djset, ubriachi fradici e divertiti. Penso di aver apprezzato anche di più questo lato della band, in mezzo a così tanti gruppi che se la tirano e fanno i fichetti dentro un backstage, ne trovi ancora qualcuno che ama il trovarsi in luoghi nuovi e semplicemente viversi il momento. È un pregio che non capita di vedere quasi mai ora come ora.

Per non parlare del chitarrista dei Flowers che, dopo che gli è stata regalata una spilletta, ci abbraccia. Vorrei tanto un amico indie con i maglioncioni che mi abbraccia così felicemente tutti i giorni.

 Per saperne di più:

www.astoria.org

Claudia Losini

scritto da

Questo è il suo articolo n°175

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