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The suburbs

Come fossero nuvole di carta. Come se la volta celeste fosse ornamento. Che poi è un po’ come in Truman Show. Plastica, la vita, plastici, sorrisi, la perfezione malsana di un meccanismo che sembra funzionare fin troppo bene. Riferimenti cinematografici, per quel che riguarda l’essenza del tema di questo pezzo, sono veramente da ricercare in liste chilometriche, condite da suggestioni di qualsiasi tipo. Qualche anno di elucubrazioni mi hanno portato a non ammettere una sola visione riguardo alle cose.

Verità assolute che magari portano a impuntarsi in modo sciocco. Sta di fatto però che fino a pochi mesi fa parlavo di questo e vi riuscivo a trovare del romanticismo, del rifuggire da poderosi muri virtuali, ostili. Oggi mi trovo a parlare di ben altra vicinanza. Di luoghi residenziali paradisiaci, immagini plastiche, perfezione melensa. Sono i sobborghi americani. E vi ci ho trascorso ben un mese, respirandoli fino a dentro i polmoni. Difficile è trovare un punto da dove cominciare. Facciamo così, il mio primo contatto con i sobborghi, qualche anno fa. Paradiso celestiale. Occhi dilatati, invasi dalla magia. Quartieri pettinati a dovere, impeccabili, geometricamente ed esteticamente.

 

Scorreva lo sguardo a bordo del SUV, in compagnia di una chiassosa famiglia americana. C’ero ma non ascoltavo. Ero assorto. Viali verdi, con fronde di alberi cadenti e romantiche, marciapiedi affossati tra verdissimi prati, lingue bianche timide e necessarie.  Le case sfolgoranti, lucenti, addobbate. Uno spiazzo rigoglioso sul fronte, misteriosi backyard nel di dietro. Faraonico.

E pensare a quell’appartamento un po’ scassato di Roma. Con le sedie che scricchiolavano e gli inquilini del piano di sotto a bussare col manico della scopa mentre mangiavamo la lasagna della mamma o le succose salsicce dell’avellinese del coinquilino. Le grandi finestre lasciavano intravedere caldi saloni, addobbati da splendidi alberi di natale. Tv immense a raccontare milioni di storie inventate, a suggellare questo amore tutto americano per la tv, totem casalingo, fortino inespugnabile. La prima metà di quest’estate sono tornato negli Stati Uniti per viverci. Mi ci sono ritrovato per un mese, nei sobborghi.

 Cosa sono? Presto detto. Distese infinite di villini, schierati con precisione l’uno affianco l’altro, che variano di bellezza, dimensione, stile. I sobborghi sono quegli agglomerati residenziali posti ai piedi della città dove milioni di famiglie trovano nidi speciali ornati di tutti i comfort dove vivere il privato. Ben collegati alla grande metropoli, nel mio caso Chicago, i sobborghi sono l’area della sterminata middle class americana.  Sono posti in contesti dove la parola “funzionale” riecheggia con grande forza.  Rimasi scioccato quando vidi per la prima volta dei drive-thru addirittura per sportelli bancari.

Queste splendide case sono sorte in aeree totalmente votate al comfort. Sono omini impazziti, molto spesso, quelli che sembra di vedere in giro per i mastodontici supermercati/grandi magazzini sparsi nell’area. Immensa area commerciale. Ti serve una macchina nei sobborghi.

Per fare la spesa, per prendere il caffè o il gelato. Giri e rigiri. Compri cose e le riporti perché non ti piacciono. Qui ti ridanno i soldi indietro e tu puoi fare 34 volte avanti e indietro perché non sei mai soddisfatto appieno. Non c’è il bar sotto casa, né il macellaio paffuto e gioviale. Non c’è un’auto parcheggiata in doppia fila.  Cortesia e sorrisi alla maniera americana. Sbucare e rientrare nelle culle verdi dei sobborghi è un vivere facile e vacanziero. I verdi viali sono per lo più popolati da persone che fanno jogging. Incredibile è la capacità degli americani di fare jogging portando al tempo stesso a spasso il proprio cane o il proprio bambino sul passeggino, che mi possano cavare entrambi gli occhi se stessi dicendo una menzogna.

Poche persone si vedono in giro a passeggiare. Si incontra poca gente ed è difficile che non ti rivolga un sorriso. Forse stanno bene per davvero, probabilmente sono davvero felici. Le case al loro interno sono oasi dalle quali non vorresti uscire mai. I frigoriferi sempre pieni di bevande di ogni tipo, dispense esageratamente sature neanche ci fosse da fronteggiare un imminente attacco nucleare da parte di qualche pazzo regime neo-comunista. Nella casa dove sono stato c’era a mia disposizione anche una piscina e un angolo bbq. La sera, spesso, mi ritrovavo a mollo nell’acqua, sorseggiando una delle leggere e sprintose birre americane, con la mia bella fetta di pollo lasciata ad arrostire succosa sulla poderosa griglia. Troppa bellezza. Pensavo sovente al mio frigorifero di casa, con i pezzi di pollo congelati che puntualmente cadevano dal congelatore perché posti pericolosamente in bilico in mancanza di spazio. Troppa leggerezza. Pensavo mentre la mattina salutavo con cenni rispettosi i vicini sorridenti mentre mi accingevo a prendere la macchina per andare a lavoro.

Non avevo chiavi. La casa rimaneva aperta tutto il giorno. Troppa sicurezza. Mi ripetevo mentre sorridente infilavo le chiavi nella fiammante Toyota rossa. Tutto questo è perfetto eppure… c’è qualcosa che si nasconde dietro, una verità più grande che per qualche motivo mi continuava a sfuggire. Con i giorni ho capito. Ho capito che c’era del troppo in tutto. Troppa esplosione di comodità. Troppo alto lo standard. Una sorta di strada senza uscita. Assuefatto da quel tipo di vita come potresti mai volerti buttare nel turbinio della vita di pianti, gioie e dolori? Il sobborgo è inclusivo. Crea isole che si differenziano. Nuclei autosufficienti, lenti. Col tempo ho imparato ad associare, a far aderire un pezzo splendido degli Arcade Fire, The Suburbs, a questi luoghi. Cantilena irresistibile, stanca ma di grandissima forza.

Ho capito.

Ho capito la lentezza di fondo di questo non luogo. La missione intrisa d’esclusione, con la corsa affannata al rifugio perpetuo della propria casa. Luogo da curare, amare e mostrare con orgoglio. Ho capito che sono luoghi di un comfort così imponente da renderti schiavo. E li ho amati perché esperimento che vale davvero la pena vivere, per capire, a mio modesto modo di vedere, se siamo pronti per la perfezione, se siamo in grado di conviverci.

E sono andato in giro armato di tanta curiosità a chiedere ai miei coetanei americani: ma voi non preferireste l’animosità della città al piatto roteare della vita dei sobborghi? Molti mi hanno detto che preferiscono i sobborghi. Si vede che sono fatto strano. Si vede che forse non saprei mai che farmene di tanta vicinissima lontananza. Sarà che mi piace scendere sotto casa e affacciarmi nella vita, senza troppi sforzi.

 

Stefano Paris

scritto da

Questo è il suo articolo n°21

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