Un percorso di parole da Brooklyn a Roma: Claudia Durastanti
Claudia Durastanti, scrittrice, classe 1984, cresciuta tra Stati Uniti e Italia, nello specifico tra Brooklyn e la Basilicata. Dopo aver studiato editoria e scrittura a Roma collabora con giornali e magazine online. Il suo romanzo Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, edito dalla Marsilio, ha vinto i premi Castiglioncello Opera Prima e Mondello Giovani ed è stato accolto come un esordio sorprendente, seguito nel 2013 da A Chloe, per le ragioni sbagliate. Entrambe sono storie di personaggi dalle vite emotivamente articolate, vissute sullo sfondo di un’America sentita dall’interno e descritta fedelmente.
Claudia rappresenterà la nuova letteratura a Bellagente 2016, la premiazione annuale di persone della scena artistica e creativa romana organizzata da Dude Mag che si terrà il 12 e il 13 marzo alle Officine Fotografiche di Roma. L’abbiamo importunata con qualche domanda e il risultato è un’intervista piena di risposte dirette e molto intense. Come i libri che scrive.
Nelle tue interviste ti viene sempre chiesto di raccontare la tua infanzia a Brooklyn. Quindi mi sembra il caso di chiederti della tua infanzia una volta trasferita in Basilicata.
È stata un’infanzia solitaria e aliena. Ma è stata un’esperienza interessante: crescere senza una struttura familiare in un contesto in cui i legami di sangue e il cognome sono ancora oggi l’unica moneta che puoi spendere, ti costringe a fare leva su qualcos’altro. Senza quello straniamento e quella solitudine non avrei fatto cento assenze su duecento giorni scolastici alle elementari e forse avrei iniziato a scrivere più tardi, ma non romanticizzo la provincia. Se hai poche risorse ti può annichilire, se hai già un’inquietudine, allora quel vuoto– quella camera iperbarica che è stata la mia vita lì– la può amplificare al meglio. È la regione italiana che preferisco, al di là di qualsiasi campanilismo. È una questione puramente sensoriale: i suoi colori e suoni sembrano sempre i risultati di una contrattazione segreta, ma quando si concedono ti fanno entrare davvero in un’altra dimensione.
A chi consiglieresti la lettura di “Un giorno verrò a gettare sassi alla tua finestra” e a chi “A Chloe, per le ragioni sbagliate”?
Sono due libri molto diversi; il primo fa leva su un immaginario più condiviso– Lower East Side fine anni Settanta, il grunge, la monumentalizzazione dell’adolescenza- e quindi lo consiglierei a un lettore o a una lettrice che è ancora in fase di scoperta o ha un rapporto d’amore verso queste cose. A Chloe, per le ragioni sbagliate in un certo senso si rivolge al lettore opposto, parla di due ragazzi che si liberano da quelle velleità e si confrontano con patologie che non hanno niente di epico.
L’ultima volta che hai pensato “Questo libro avrei voluto scriverlo io”?
Quando ho letto L’Ora della Stella di Clarice Lispector.
New York, Roma, Londra. Un buon motivo per amare ed uno per odiare queste tre città in cui hai vissuto.
I motivi per amare Londra e New York sono gli stessi per cui sta diventando impossibile viverci; quando la storia e la mitologia di una città diventano solo merce, quei posti si trasformano in una Disneyland della controcultura e devi faticare per trovare delle sacche di resistenza, se ti interessano quelle, ma soprattutto devi avere molta immaginazione e volontà per trovare degli spazi nuovi, vitali. Una città può deluderti, ma quando non è in grado di generare un’aspettativa o una sorpresa, parliamo davvero di fase catatonica. Ad oggi mi sembrano dei bellissimi musei interattivi, in cui puoi occasionalmente perdere contatto con la realtà, ma sono epifanie temporanee. Roma a modo suo, per quanto sia bizzarro, non mi trasmette la stessa malinconia e senso di declino; ultimamente intravedo invece un desiderio di stare al passo. Non avrà un Cafe Oto, ma percepisco il desiderio di determinate comunità di trovare quello spazio, di inventarlo. È una città disastrata, ma da questo punto di vista forse più sana.
Interverrai a “Bellagente”, evento che celebra personaggi dello scenario culturale romano che come recita il sottotitolo “fanno tanto bene a Roma”. Cosa fai e faresti per Roma?
Non ho fatto molto, anzi. Per anni ho evitato accuratamente di parlarne o di scriverne, e quando succede mi occupo solo di quello che conosco. Non ho l’ambizione al ritratto definitivo, esserne stata una cittadina provvisoria mi ha permesso di avere uno sguardo più laico su questo, magari anche più generoso. E quindi forse la cosa che ho fatto per Roma, attraverso il racconto Cleopatra va in prigione uscito ne L’età della Febbre, è stata evitare di trasformarla in una metafora. In un contesto mediatico e letterario in cui tutto si fa prodromo di qualcos’altro e persino una pioggia torrenziale è riconducibile alla corruzione del papato o ai clan malavitosi, scrostare la città da questa suo senso di predestinazione morale è probabilmente la cosa più utile, se non doverosa, che uno scrittore può fare.
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