Venette Waste, la couture a impatto zero
Oggi vi parlo di una bella signora dai capelli rosso fuoco di nome Rossana che ha deciso di iniziare una piccola grande rivoluzione nel mondo della moda italiana in nome di un concetto sacro: la bellezza. La stessa bellezza che salverà il mondo di cui parlava il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij. Non posso fare a meno di riportarlo anche se non l’ho ancora letto, lo ammetto ed un po’ me ne vergogno. A voi capita mai di pensare a qualcosa che non fate e con un po’ di impegno potreste fare? Non sto divagando e capirete presto il perché. Dopo anni di duro lavoro e grandi successi per un famoso brand inglese, Rossana si accorge che il grande macchinario di cui è un ingranaggio inizia a starle stretto. A cambiare la sua ottica è il libro di uno scienziato che analizza l’impatto dei consumi e degli sprechi dell’era industriale sul pianeta, e quindi sul futuro degli esseri umani. La parola consumo rimanda per una semplice connessione di idee all’universo del fashion, quindi Rossana pensa a come poter dare vita ad un progetto totalmente sostenibile, che non aggiunga spreco di materiali ed energia ma, al contrario, lo sottragga. Ecco così la prima griffe nata dallo spreco, Venette Waste. Abbiamo incontrato Rossana e le sue creazioni tutt’altro che recuperate nel suo atelier a Milano. E con il motto “pane al pane e couture alla couture” ci ha aperto un nuovo mondo fatto di stile a impatto zero.
Ci racconti chi sei e com’è nata la tua volontà di fare moda eco-sostenibile?
Ho lavorato vent’ anni per Vivienne Westwood, l’ho portata in Italia, ho creato il progetto Red Label e grazie alla produzione italiana abbiamo fatto del marchio un grande successo economico. Poi intorno al 2000 ho iniziato ad avvertire una grande insofferenza riguardo all’industria e a dove stava andando. Ho cominciato a pensare che certe dinamiche non potevano più essere coerenti con il vero significato di “bellezza”. La bellezza ha bisogno di determinati ingredienti per esistere, primo tra tutti é il rispetto, dei tempi di lavorazione, del prossimo, dell’ambiente. La cavalcata sul prodotto in tutti i settori ha cancellato questo rispetto. Nel 2004 ho deciso di lasciare l’azienda e nel 2005 la mia vita é cambiata con la scoperta di un libro di Ervin László, esperto di filosofia della scienza considerato il fondatore della teoria dei sistemi e l’Einstein dei nostri giorni. In 10 anni e con tanta volontà mi sono ricostruita una vita sul modello sostenibile. Spesso dico che viviamo nella “sbaglitudine”, la gente è indotta dai meccanismi del consumismo e non si accorge di quanto alcune cose siano totalmente sbagliate sia per noi esseri umani sia per l’ambiente.
Ci porti qualche esempio?
Il gioco del consumismo è relegare ogni cosa ad un prodotto. Io, ad esempio, sono molto contraria alla strumentalizzazione dell’ecologia, anche il riciclo é un prodotto, quindi figlio del consumo. Ogni volta che c’è un nemico del consumo, il consumo lo trasforma e gli crea un segmento di vendita, una nicchia, quindi ad esempio il prodotto ecologico o il prodotto riciclato. Puoi scegliere se essere ecologista o no. In realtà dobbiamo essere tutti ecologisti se vogliamo lasciare delle risorse alle generazioni future e dobbiamo farlo ora perché il tempo di decelerazione dei ritmi produttivi implicherà almeno altri 30 anni di tempo prima di raggiungere livelli adeguati per l’ecosistema. Questi potranno sembrare discorsi filosofici ma c’è una realtà schiacciate legata a dati numerici: fino ai primi del ‘900 la terra contava un miliardo di individui, in soli 100 anni siamo diventati 7 miliardi. Le risorse del nostro pianeta al momento bastano solo per gli abitanti che ci sono già, e siccome non c’è una distribuzione equa dei beni stiamo già vivendo a debito (non a credito) con il pianeta terra.
Ci parli del tuo marchio Venette Waste e di come funziona?
Il modo più giusto per fare sostenibilità è lavorare sugli “sprechi”. Io uso qualcosa che a monte non ha mai avuto un ciclo vitale. Le aziende tessili solo piene di prodotti meravigliosi che non sono mai stati utilizzati perché scarti di un sistema industriale cosě pachidermico e veloce che non può assorbirli. Io sono un piccolo esempio di come si può fare moda Made in Italy senza impattare sull’ambiente e con un prezzo equo. Abbiamo creato una rete per utilizzare i fondi di magazzino, li paghiamo ad un prezzo equo non di stock e li utilizziamo per le nostre produzioni.
Utilizziamo non solo tessuti recuperati dagli sprechi ma anche gli ometti per appendere i vestiti sono scarti, le scatole sono quelle rifiutate perché stampate male. Facciamo prodotto senza produrre niente fuorché il cartellino: una volta riportato io stacco il codice a barre e ne riattacco uno nuovo sullo stesso cartellino che in questo modo non si butta mai via. Nel prodotto abbigliamento il valore di spreco più alto é proprio il cartellino perché ha il ciclo di vita più corto. Alcuni stilisti lavorano per settimane pensando a come fare il cartellino più bello dei loro concorrenti, tante aziende lavorano solo per produrre i loro cartellini, alla fine tu arrivi a casa e lo butti, a volte ne trovi uno bello e lo lasci parcheggiato sul tavolo ancora per un po’ di giorni fino a quando durante una crisi isterica fai pulizia e butti anche lui e magari nel frattempo ti prendi anche uno Xanax. Siamo nella nevrosi totale e abbiamo perso il buon senso. Il mondo della moda é fatto di sprechi, ma la moda non deve sprecare per essere moda.
Quanto pesa lo spreco sull’industria tessile italiana?
Il valore dello spreco incide sul prodotto abbigliamento dal 50 al 70%, lavorando sugli sprechi potremmo tornare ad essere un paese ricco. L’Unione Europea fa chiudere le aziende che producono tessuti con la formaldeide che é una sostanza cancerogena, però non impedisce l’importazione di quegli stessi capi da paesi come Cina e Pakistan. Evidentemente ci sono interessi più alti legati alle risorse energetiche che mettono le piccole aziende in secondo piano. Il consumatore ora deve ragionare da consumatore globale invece che da consumatore locale, davanti ad un prodotto bisogna chiedersi chi l’ha fatto, a chi sto dando quel centesimo perché il mio centesimo insieme ad altri 7 miliardi di centesimi fa di quella realtà un colosso invincibile.
Come può la moda sensibilizzare al prodotto sostenibile?
La moda avrebbe un ruolo importantissimo perché si fa seguire. Sicuramente non proponendo capi stinti biologici. Viviamo in un mondo globale e ci sono paesi emergenti, come la Cina o l’India, che stanno vivendo il fenomeno moda ora per la prima volta, vogliono il PVC, non si pongono in problema dell’ecologia, e non possiamo andare ora da loro con le tonache biologiche dicendo che abbiamo rovinato il pianeta e devono accontentarsi di quei materiali. Offrire un prodotto realizzato dagli sprechi, consentirebbe loro di soddisfare necessità più “futili” legate all’argomento moda, ma allo stesso tempo sensibilizzare al buon senso dell’utilizzo di materie anche non strettamente ecologiche.
Come interpreti l’interesse della nostra generazione per il vintage?
Dopo 30 anni di tanti begli abiti la gente parla ancora del tubino alla Audrey Hepburn perché quel tubino era nato e vissuto in un epoca in cui il prodotto restava sul mercato il tempo giusto per entrare nell’ immaginario collettivo. Oggi escono dei capi meravigliosi ma neanche io che sono del settore riesco a vederli, non faccio in tempo. Perché la gente impazzisce per il vintage ed ha le crisi isteriche davanti ad un capo puzzolente con i tarli? Perché il valore del tempo é importante, ci governa, e se viviamo costantemente nel nuovo standardizzato istintivamente sentiamo bisogno del vecchio.
Che progetti hai per il 2014?
La nuova collezione, poi ho fatto un brevetto su un pantalone che é un’invenzione che non c’era e a breve lo lanceremo sul mercato, abbiamo in uscita un manuale di stile sostenibile “Il Guardaroba 2.0, il Guardaroba di stile oltre le mode, oltre le crisi, oltre i cambiamenti climatici”, con le illustrazioni di Venette, la supereroina a fumetti creata da me che al contrario di quelle americane ci riporta con i piedi per terra.
Ci suggerisci qualcosa di semplice da fare per uscire dall’ingranaggio del consumo?
Sicuramente rinunciare alla televisione, é annichilente e poi viene spesso sottovalutato il potere della pubblicità. Eliminare la plastica, chiedere il bicchiere di vetro al bar invece della bottiglietta. Educarsi alla rinuncia, eliminare le cose inutili che ci privano solo della libertà. La bellezza é nell’essere non nell’avere. Non pensare mai che tutto ciò non serva e non essere pigri. Per vivere felici bisogna dare e sprecarsi. Sprecarsi ma non sprecare.
Per saperne di più:
Venette Waste | sito – facebook